Lauren Gelfond Feldinger
Leggi i suoi articoliUn’insolita alleanza tra rabbini ortodossi israeliani e leader religiosi islamici del Medio Oriente sta mediando dietro le quinte dopo l’esplosione di rabbia e violenza scatenata il mese scorso dal riconoscimento da parte del presidente americano Donald Trump di Gerusalemme come capitale di Israele. Mentre andavamo in stampa, nella regione proseguivano le dimostrazioni.
A Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza, le forze israeliane che si scontrano con i dimostranti palestinesi e i raid aerei israeliani in risposta al lancio di missili da Gaza hanno causato almeno dieci vittime e centinaia di feriti. La dichiarazione statunitense su Gerusalemme ha anche fatto aumentare gli appelli arabi a boicottare ogni associazione con Israele.
Gli studiosi religiosi musulmani ed ebrei sopra citati mantengono invece fede alle loro strategie non violente per assicurare i diritti e la sicurezza tanto degli israeliani quanto dei palestinesi e per «fermare le uccisioni», come ha dichiarato lo sceicco Imad Falogi, un ex leader di Hamas a Gaza, alla nostra testata internazionale «The Art Newspaper».
Questi sforzi interconfessionali segreti, che i leader religiosi descrivono come una «rete religiosa di pace» sono iniziati nei primi anni Novanta e si sono estesi attraverso Israele, Cisgiordania e Gaza, con l’obiettivo primario di mantenere la pace a Gerusalemme e nei suoi luoghi sacri. Nel 2002 Mohammad Sayyd Tantawi, allora grande imam di al-Azhar (il titolo più prestigioso del mondo islamico sunnita), ha incontrato vari leader religiosi della Terra Santa e l’arcivescovo di Canterbury per firmare la Dichiarazione di Alessandria, un corpus di principi religiosi per la non violenza.
La coalizione vede oggi un numero crescente di studiosi coranici in quasi tutti i Paesi arabi. La rete si estende dagli Stati islamici del Nord Africa a Paesi del Medio Oriente tra cui Egitto, Giordania, Siria, Arabia Saudita, Kuwait e Iraq. Alcuni capi musulmani si sono incontrati con rabbini ortodossi israeliani in Spagna, Italia, Norvegia e Turchia. Se il loro fine primario è di migliorare le relazioni ebraico-islamiche, essi mantengono anche stretti collegamenti con i capi cristiani di Gerusalemme, di Israele e della Cisgiordania.
Il papa, hanno detto, è tenuto al corrente del loro lavoro. Nonostante la rabbia per la dichiarazione statunitense che intende spostare la sua ambasciata a Gerusalemme e il disaccordo con Israele in merito ai diritti dei palestinesi, «un gran numero» di capi islamici del Medio Oriente e di tutto il mondo, sostiene lo sceicco Falogi, vuole lavorare con questi rabbini israeliani «per una vera pace e per i diritti politici e sociali». I capi religiosi devono fare la propria parte, spiega, perché possono raggiungere risultati meglio e più velocemente dei politici poiché rispetto a questi ultimi hanno «più potere in Medio Oriente». Falogi ha anche dichiarato che i rabbini che vede come suoi alleati hanno studiato il Corano così come lui ha studiato la Bibbia cristiana e i testi sacri ebraici. «I rabbini di questa rete capiscono noi, la nostra religione e i nostri diritti, meglio dei politici», osserva.
Il rabbino ortodosso israeliano Avi Gisser, capo della colonia di Ofra in Cisgiordania e presidente del Consiglio nazionale religioso d’Israele, nutre grande rispetto per i suoi partner islamici. «Insegno nella comunità religiosa ebraica che dobbiamo costruire le nostre vite insieme, ebrei e arabi, ebrei e musulmani; ci deve essere uguaglianza, non separazione», dice. Gisser insegna ora anche diritti islamici e palestinesi e sostiene le connessioni interreligiose finalizzate alla «sicurezza e alla lotta contro il terrorismo».
C’è qualche rischio che i rabbini incontrino degli imam integralisti, ma per gli imam è particolarmente pericoloso incontrare i capi religiosi israeliani. «È pericoloso parlare con i rabbini, ma sono convinto che sia un bene per entrambe le parti», osserva lo studioso di diritto islamico Ali Sartawi, che nel 2007 ha svolto le funzioni di ministro della Giustizia affiliato ad Hamas nel Governo palestinese. «Non possiamo costruire la pace con una sola parte politica. Non ho alcun problema con gli ebrei del versante israeliano. Rispetto la religione ebraica. Ma se i fondamentalisti crescessero da entrambe le parti, avrei paura».
«Naturalmente ci sono estremisti ebrei e arabi ai quali quest’alleanza non piace, ha ammesso il rabbino Gisser. Ma tra la gente comune c’è una forte volontà di creare relazioni più strette». All'inizio del 2017, alla morte dello sceicco Abdallah Nimer Darwish il cofondatore del Movimento Islamico in Israele, che ha anche aiutato la costituzione della rete religiosa di pace, Gisser si è recato nella camera ardente allestita in una tenda ed è stato invitato a parlare. «Mi hanno accettato», dice.
Prima che l’intero Medio Oriente andasse in fiamme
L’annuncio statunitense su Gerusalemme è stato interpretato da molte parti come un fatto che anticipa lo stallo del processo di pace israelo-palestinese. Dopo l’occupazione israeliana di Gerusalemme Est, sottratta alla Giordania nel 1967, Israele dichiarò il territorio parte della sua capitale. Ma i palestinesi e gran parte della comunità internazionale considerano Gerusalemme Est come un territorio occupato e non vi riconoscono la sovranità israeliana.
I residenti palestinesi della zona, che per la maggior parte non godono della nazionalità israeliana, vogliono che Gerusalemme Est venga riconosciuta come la loro capitale e ambiscono a uguali diritti. Per i musulmani e per gli arabi cristiani la dichiarazione statunitense costituisce anche una minaccia per i luoghi sacri della città vecchia fortificata di Gerusalemme Est, che è sede di numerosi siti sacri all'Ebraismo, al Cristianesimo e all’Islam, oltre che di quartieri ebraici, armeni, musulmani e cristiano-arabi.
Sull’onda dell’annuncio di Donald Trump, i membri della rete si sono adoperati attivamente per convincere le autorità e le comunità a evitare provocazioni e violenze nella regione, specialmente a Gerusalemme sul Monte del Tempio. Questa, il sito del secondo Tempio distrutto dai Romani nel 70 d.C., rimane il luogo più sacro dell’Ebraismo. Nell’area, nota ai musulmani come Haram al-Sharif, sorge anche la moschea Al-Aqsa, il terzo sito più sacro dell’Islam.
È essenziale che le persone capiscano le forti emozioni che questo luogo genera nel mondo arabo, asserisce lo sceicco Raed Bader, giudice islamico nonché l’autorità legalmente riconosciuta del ramo meridionale del Movimento Islamico di Israele: per i musulmani di tutto il mondo «Al-Aqsa è come la Mecca», sottolinea.
Allo stesso tempo, lo sceicco Bader ha detto che molte ore di conversazione con i rabbini l’hanno anche aiutato a capire i legami ebraici con i loro luoghi sacri: «Abbiamo cercato di trovare le soluzioni più positive, profonde, creative». Le sfide per mantenere la pace nel sito sono enormi. Negli ultimi anni, religiosi e nazionalisti ebrei hanno visitato il sito in numeri sempre crescenti, mentre i fedeli maschi musulmani di meno di 50 anni, cui Israele può vietare di visitare la loro moschea, dicono di sentirsi non rispettati e privati dei loro diritti.
Il rabbino di Gerusalemme Michael Melchior, un ex ministro di Israele e cofondatore dell’alleanza religiosa, afferma che la coalizione è «sempre in guardia», perché il luogo sacro è «nucleare». Le tensioni hanno raggiunto l’apice lo scorso luglio, con morti da entrambe le parti. Ma la violenza sarebbe stata decisamente peggiore se non fosse intervenuta la rete, sostiene Melchior. Gli estremisti «che volevano scatenare una guerra mondiale, uno scontro di civiltà, avrebbero prodotto migliaia di morti. Eravamo a un passo da quella situazione. Ho ricevuto molte chiamate dai vertici della polizia. Abbiamo negoziato la situazione prima che l’intero Medio Oriente andasse in fiamme».
Gli studiosi musulmani forniscono la stessa versione. Insieme hanno aiutato a mediare tra il Waqf, il consiglio islamico incaricato dalla Giordania della custodia dei siti islamici della Città Vecchia, «con il sostegno di molti attori del mondo musulmano e della polizia israeliana e con l’approvazione del gabinetto israeliano», dice Melchior.
Gli evangelici gettano benzina sul fuoco
La radicalizzazione delle posizioni musulmana ed ebraica nella Spianata del Tempio è «sostenuta e agevolata dai cristiani evangelici che stanno esacerbando le tensioni», afferma l’avvocato israeliano Daniel Seidemann, esperto di Gerusalemme e consulente politico. «La prossima esplosione di violenza è soltanto questione di tempo. Sono movimenti religiosi in forte crescita, che hanno armato la fede, le cui richieste sono esclusive, esistenziali e assolute. Sono coloni cristiani guidati dalla Bibbia, sono il movimento messianico ebraico del Monte del Tempio, le varie iterazioni dell’Islam estremo e i Cristiani dell’ultimo giorno. La tradizionale leadership religiosa (la Santa Sede, il Patriarcato Ortodosso, le principali chiese protestanti, i capi rabbini e le tradizionali corti della Sharia) sono vittime di una fase di marginalizzazione», sostiene Seidemann.
Il risultato è che i rapporti israeliani con la Giordania, custode dei siti musulmani, non sono mai stati peggiori. Ma responsabilizzare le comunità di culto potrebbe aiutare, prosegue Seidemann. «Credo, dice, che nessuno stia pensando di affidare i processi politici alle comunità di culto, o di concedere ai capi religiosi un ruolo formale al tavolo dei negoziati. C’è, tuttavia, una grande consapevolezza sul fatto che trascurare la dimensione religiosa di questo conflitto avrebbe gravi conseguenze e potrebbe dare esito a processi politici fallaci, minando l’integrità della città e potenzialmente destabilizzandola».
Cerchiamo di aiutarci
Fin quando non ci sarà un accordo di pace e diritti e sicurezza per tutti i residenti, la rete cercherà di colmare le lacune lasciate dagli sforzi politici, diplomatici e di sicurezza. «Non siamo un governo né abbiamo poteri. Ma se ci viene chiesto di aiutare, cerchiamo di aiutarci tutti gli uni con gli altri, spiega il rabbino Melchior. Interveniamo sempre».
Lo sceicco Bader ritiene che risolvere dispute settarie a Gerusalemme possa avere ampia eco: «È necessario che musulmani ed ebrei spieghino che la pace non è un bene solo per gli israeliani e i palestinesi, ma un modello che influenza Libia, Iraq, Siria e Algeria. Vogliamo incontrare rabbini che la pensino allo stesso modo. Non incontro rabbini o sceicchi che vogliono la guerra. Guardi che cos’è successo in Egitto: 300 fedeli in preghiera uccisi in nome della religione. La stessa cosa succede in Siria, Iraq, Yemen e altrove. Chi fa questo non rispetta i nostri testi e non rispetta Dio».
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