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Sempre fedele alle sue cancellature, eppure sempre nuovo e inaspettato, ancora una volta Emilio Isgrò sa stupire e coinvolgere intensamente con i nuovi, bellissimi lavori presentati nella personale intitolata «Ulysses» che si è appena inaugurata a Milano, da M77 Gallery (dove sarà visibile fino al 16 marzo prossimo). Stringata e potente, la mostra si compone essenzialmente di due sole, grandiose installazioni, una per ogni piano della galleria, cui si aggiungono alcune altre opere legate al tema del viaggio per mare.
Eppure, dentro c’è tutto: c’è l’Isgrò iper-concettuale del 1971, quando concepisce l’«autoritratto» al negativo «Dichiaro di non essere Emilio Isgrò» (sette fogli dattiloscritti, nel primo dei quali l’artista nega la propria identità, supportato poi da sei laconiche dichiarazioni di altrettanti membri della sua famiglia, con la fotografia della performance che inscenò) e ci sono, senza fratture di significato, i lavori site specific concepiti e realizzati proprio per questa occasione. Del resto, è in quei sette fogli che si trova la radice della sua recentissima riflessione perché, spiega lui stesso, fu proprio l’Ulisse omerico, che al Ciclope che gli chiedeva il nome rispose astutamente di chiamarsi «Nessuno», a ispirargli quel lavoro seminale e quella performance.
La mostra, che è curata da Claire Gilman, Chief Curator del Drawing Center di New York, in collaborazione con l’Archivio Emilio Isgrò,si apre dunque con quei fogli, ma lì, al piano terreno, in un ambiente che è un omaggio alla figura del mitico navigatore, è la nuovissima installazione formata da una sorta di planetario sospeso (dove l’unico pianeta, però, è una Terra «cancellata», ripetuta in otto formati diversi) a catturare subito lo sguardo: sullo sfondo, una grande carta geografica «cancellata» della Spagna; accanto altre carte del Mediterraneo con le rotte di Ulisse e gli otto volumi dell’«Odissea» cancellata (1968), esposti per la prima volta.
A conferma, con la loro data così alta, della presenza costante della cultura classica in un artista realmente e profondamente colto, e intriso di «mediterraneità» quale è Isgrò, che non a caso è nato in Sicilia, la Sikelia degli antichi Greci.
Ulisse, dunque: e non solo l’Ulisse di Omero, ma anche quello temerario e assetato di conoscenza («il folle volo» oltre le Colonne d’Ercole!) di Dante, e di qui, in una sorta di condensazione freudiana, il capitano Achab di Herman Melville, il cui «folle volo» è la caccia senza tregua alla terribile balena bianca, con tutta la potente simbologia di cui è intrisa.
E nella balena ci s’imbatte, con un vero colpo al cuore, salendo al primo piano, le cui pareti sono interamente rivestite da una pittura murale con le cancellature, in grigio su nero, di frasi del «Moby Dick» di Melville, su cui si ritaglia la sagoma della balena che si sta inabissando (e al centro i volumi, per la prima volta cancellati con l’oro, dell’«Inferno» di Dante e del libro di Melville).
«La coda della balena? ci chiarisce Emilio Isgrò: è un pittogramma, qualcosa che mi permette di arretrare fino alle origini del linguaggio. Con essa salta la partizione tra figurativo e astratto, è una regressione che cancella molte delle modalità espressive del ‘900: è un alfabeto prelinguistico».

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