Alessandra Mammì
Leggi i suoi articoliLa prima passione per Juan Rego (Madrid, 1977) fu la storia dell’arte, complice, come spesso accade, l’ottimo professore di liceo, di quelli che lasciano un segno nelle scelte degli studenti. Per questo fu Storia dell’arte anche la materia dei primi anni di università a Madrid, città dove Rego è nato in una famiglia di sincera fede cristiana.
Più tardi però, durante la specializzazione nell’Università di Navarra, la filosofia e gli studi di teologia lo spingono ad abbracciare il sacerdozio e ad accantonare per lungo tempo le avanguardie moderne e contemporanee che erano state oggetto della sua prima formazione.
Ma le vere passioni prima o poi riemergono ed è così che ha inizio un singolare percorso che porta il reverendo Rego a specializzarsi in Estetica liturgica: materia rara nel mondo ecclesiastico, dove la dimensione estetica non è molto presente. Un danno che a lungo andare si è rivelato ostacolo nel costruire un dialogo fra artisti e teologi nonché educare lo sguardo dei fedeli ai nuovi orizzonti che la ricerca contemporanea può offrire all’immagine di una spiritualità che risponda ai tempi. Tutti temi centrali nel pensiero e nel lavoro di Juan Rego, ora professore straordinario presso l’Istituto di Liturgia dell’Università della Santa Croce ma soprattutto, per ciò che ci riguarda, membro della Consulta dell’Ufficio liturgico nazionale, ovvero l’istituzione che valuta la congruità dei progetti di artisti e architetti per la costruzione di nuove chiese.
Ed è proprio in questo suo ruolo di ponte fra le necessità che la liturgia impone e la velocità con cui si muovono le immagini e le forme del linguaggio estetico contemporaneo, che la sua esperienza diventa illuminante nel capire che cosa abbia generato e come sia cresciuto il disagio che nel corso del Novecento e soprattutto in questo nuovo millennio ha allontanato gli artisti dalla Chiesa e la Chiesa dagli artisti. L’analisi di una crisi che si sta radicalizzando sempre più è il motivo di questo incontro.
Il rapporto fra il mondo delle arti contemporanee e la committenza ecclesiastica non appare semplice. Basti pensare alle polemiche che spesso scoppiano dopo le inaugurazioni di nuove chiese o a fronte di interventi di artisti all’interno di quelle storiche. Reverendo Rego, a che cosa attribuisce questa difficoltà di dialogo e quali sono stati i progetti architettonici o artistici in grado di superare l’impasse?
Nella mia esperienza, tra i progetti esaminati dalla Consulta, pochissimi sono poi quelli andati a termine, perché mettere in piedi un nuovo edificio-chiesa non è cosa banale. Significa confrontarsi con temi molto seri: la trascendenza, le aspettative dei fedeli, le esigenze della liturgia. A questo si aggiungono difficoltà di costruire un linguaggio comune fra architetti, artisti e teologi. Non è facile far dialogare questi diversi mondi. La tendenza dell’architettura contemporanea è quella di costruire un’opera totale sufficiente a sé stessa che difficilmente accoglie un corredo iconografico. D’altra parte un artista forte è spesso insofferente alle condizioni imposte dall’architetto e a questo si aggiungono le esigenze della Chiesa a volte non immediatamente conciliabili con la creatività di entrambi. Insomma siamo di fronte a una triangolazione piuttosto difficile.
Triangolazione da cui spesso vengono fuori chiese fredde, inospitali, pareti nude e spoglie seguite da discussioni e polemiche come fu per la chiesa di Richard Meier nel quartiere di Tor Tre Teste a Roma.
Ci sono anche esempi che a mio parere hanno vinto la sfida. Penso all’opera di uno dei più grandi architetti di spazi sacri come Rudolf Schwarz e alla sua Heilig Kreuz di Bottrop o alla soluzione iconografica proposta da Mario Botta nell’abside della Chiesa del Santo Volto a Torino. Ma in genere gli architetti progettano spesso secondo i canoni che appartengono alla tradizione del movimento moderno. Fare architettura di qualità secondo il movimento moderno significa fare dello spazio stesso un’immagine. Dunque, secondo i progettisti, nella chiesa moderna non ci sarebbe bisogno di dipinti. L’edificio è scultura, opera d’arte totale. La spiritualità arriva dai materiali, dalle proporzioni, dal movimento della luce. La figurazione è allora espulsa. Ma a questo punto più che una chiesa abbiamo costruito un’«aula liturgica».
E qual è la differenza?
La liturgia è essenziale, ma fare della liturgia l’azione principale se non unica per la quale viene costruito l’edificio-chiesa, non copre tutte le funzioni e le esigenze. Se non si tiene conto delle tante declinazioni e funzioni di una chiesa, che cosa si fa dopo la celebrazione? Si chiude la porta? Questo non è il modo in cui questi spazi sono stati utilizzati per secoli. La chiesa è nata anche per la predicazione, per le devozioni popolari, per la preghiera silenziosa e individuale. E per tutte queste cose le immagini sono importanti. Come fare una Via Crucis senza qualche segno o recitare un rosario senza l’immagine della Madonna? Considerare queste azioni come secondarie è un errore. La riduzione dell’aula alla sola liturgia ha reso superfluo quell’apparato iconografico che le chiese hanno sviluppato per secoli. Questo ha poi comportato il rischio di vedere quegli immacolati e moderni spazi architettonici riempirsi pian piano di immagini non congrue e non educative portate alla rinfusa dal bisogno di fedeli e parroci in totale contrasto con il progetto. Un visibile segno del disagio creato dall’incomprensione fra l’edificio e il suo uso.
Che cosa suggerisce allora nell’elaborazione di un nuovo progetto?
Ci sono delle indicazioni che già il Concilio Vaticano II aveva evidenziato nei primi anni Sessanta. Un contesto ecclesiale in cui la Chiesa notò un processo di secolarizzazione generale ed espresse il bisogno di promuovere la vita cristiana accettando le complessità di un mondo che non era più quello ottocentesco. In quel contesto ci fu grande sensibilità verso l’estetica contemporanea e un invito ai movimenti culturali e artistici di illuminare ed evangelizzare attraverso la pluralità, non volendo in nessun modo chiudersi in un unico stile, né offrire un canone o un vademecum. Era, ed è, necessario abbracciare una pluralità di contesti e cercare la strada per comunicare con ciascuno di questi. Farò un esempio: la chiesa di John Pawson per l’Abbazia di Nostra Signora di Novy Dvur in Boemia è un capolavoro di spiritualità e minimalismo. Ma siamo all’interno di un monastero di frati trappisti, ordine votato alla più pura essenzialità. Non può essere il linguaggio per parlare alle comunità di periferia di una grande città né tantomeno per costruire con gli stessi criteri la loro chiesa. Il luogo adatto a un monaco votato alla meditazione è diverso da quello che accoglie bambini e famiglie nel giorno della comunione.
Dunque che cosa chiede la Chiesa agli artisti e agli architetti?
Semplicemente che si ascolti la comunità. Non per adeguarsi al gusto ma perché ci sia un gesto eroico di mettersi al servizio della sensibilità religiosa, culturale e teologica di quelle persone. Anche per rieducarne lo sguardo. Lo sguardo contemplativo intendo. Io credo nell’arte come cura e nell’immagine come una soglia che aiuti ad andare al di là della figura per incontrare qualcosa di più grande. Se Cristo nasconde la sua divinità per farsi uomo e dunque immagine, per un artista che opera all’interno di una Chiesa questa consapevolezza dovrebbe essere una cosa molto seria da affrontare.
Non è molto lontano da quello che oggi viene richiesto all’arte pubblica. Svolgere un ruolo per la società e non più solo all’interno del sistema dell’arte...
Questo diventa necessario in un contesto ecclesiale in cui la chiesa vuole che i cristiani siano luce, lievito della società. L’arte dunque è chiamata a ritrovare un dialogo e per ritrovare un dialogo deve conoscere le basi di un immaginario comune. Il linguaggio della fede è un linguaggio biblico che poggia su figure e narrazione. Questo è l’immaginario da cui non si può prescindere. Se non si conoscono quelle storie diventa difficile entrare in contatto con la comunità. Il grande ritorno al figurativo che segna i nostri tempi potrebbe essere d’aiuto.
Quindi lei ritiene che un’arte figurativa sia più adatta di una astratta o concettuale a svolgere questo compito?
Mi sembra che stiamo assistendo a un grande ritorno del figurativo soprattutto fra le nuove generazioni. Il flusso ossessivo delle immagini che arriva dal web e l’uso di smartphone e social ci pongono il problema in una dimensione che supera la dicotomia fra figurativo e non figurativo. Siamo piuttosto in una fase in cui è difficile trascendere dalle immagini. Ma se l’immagine si risolve in sé stessa diventa un idolo e dunque non è più una base per costruire un rapporto con Dio. È un problema serio perché nel consumo compulsivo, la capacità contemplativa si è persa, la pornografia dell’immagine ha distrutto la sua essenza simbolica e rende incapaci di vederla come soglia di qualcosa di più grande che si rende presente nell’immagine ma non si esaurisce in essa. La forza dell’arte è raggiungere l’invisibile attraverso il visibile. Quindi credo che la grande sfida dell’arte cristiana contemporanea e del suo ruolo nelle sue chiese sia proprio questa: rieducare allo sguardo contemplativo.
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