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Gabriele Tinti tra Franco Nero, a sinistra, e Kevin Spacey

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Gabriele Tinti tra Franco Nero, a sinistra, e Kevin Spacey

Gabriele Tinti e il club della poesia ecfrastica

Un poeta e scrittore ha chiamato alcuni tra i più celebri attori del mondo a recitare i suoi versi dedicati all’arte del passato. Il Pugile a riposo, il Cristo morto di Mantegna e il san Sebastiano di Domenichino ora ci parlano

Anna Maria Farinato

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La voce arrochita e profonda di Willem Dafoe (sì, il dottor Godwin che in «Povere creature!» dà vita a Bella Baxter) risuscita le parole delle epigrafi nella collezione del Museo Nazionale Romano e fa parlare in inglese il «San Sebastiano» di Domenichino della Chiesa di Santa Maria degli Angeli; Abel Ferrara, davanti al «Cristo morto» di Brera, ne sussurra la «Lamentation», «l’agonia della ferita»; Kevin Spacey si trasfigura ruggendo di dolore accanto al «Pugile a riposo» del Museo Nazionale Romano, nella cui pelle bronzea e segnata si cala fin quasi ad assumerne i connotati. In termini cinematografici si potrebbe parlare di un cast stellare, ma non si tratta di un film, bensì di una curiosa confraternita, un club della poesia ecfrastica, che si è andato riunendo intorno a Gabriele Tinti (Jesi, 1979), poeta, scrittore e critico che vive a Senigallia, lavorando al fianco dei disabili («un lavoro che non mi fa dimenticare il dolore», dice).

Da anni Tinti compone poesie ispirate alle opere d’arte, le statue antiche in primis: il Galata suicida, l’Atleta di Fano, il Discobolo, i Marmi del Partenone, l’Ercole Farnese e il citato Pugile. Con il progetto «Rovine» ha coinvolto attori italiani e internazionali di primo piano in una serie di letture dal vivo di fronte alla statuaria classica dei più importanti musei del mondo (Metropolitan, Getty, British, Mann, Brera) da cui ha tratto ispirazione. I reading poetici sono confluiti in due pubblicazioni (Rovine, con interventi di studiosi internazionali di arte antica, pubblicato da Scheiwiller nel 2021; l’edizione in inglese, Ruins, è uscita per la londinese Eris Press) dedicati alla «scultura vivente dell’attore»: la lista è lunga e oltre ai sopra citati comprende Malcolm McDowell, Joe Mantegna, Marton Csokas, Robert Davi, Burt Young, Franco Nero, Alessandro Haber, Stephen Fry, James Cosmo, Michele Placido, Jamie McShane e Vincent Piazza.

Più recente è la raccolta Sanguinamenti-Incipit Tragoedia (La nave di Teseo, Milano-Contra Mundum Press, New York), in cui compaiono i testi letti da Dafoe. Il volume riunisce epigrammi che l’autore ha composto nella primavera del 2020, nati «dal ricordo dell’antico e dal disprezzo del presente» e che mirano «a trasfigurare la nostra paura per la morte, per il dolore e la sofferenza». A ispirarlo le collezioni epigrafiche del Museo Nazionale Romano, dei Musei Capitolini e del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, nonché iscrizioni funerarie più vicine a noi. Lo scorso dicembre Gabriele Tinti è stato nominato, primo caso in Italia, «poeta in residenza» del Museo Nazionale Romano.
 

Kevin Spacey e Gabriele Tinti. Cortesia di Mauro Maglione

Gabriele Tinti, se penso a un poeta residente in un museo immagino una figura che vaga per le sale vuote, magari di notte, che compone e declama davanti a statue e dipinti. In realtà che cosa succede?
Con il Museo Nazionale Romano ho una relazione ormai più che decennale. È un luogo per me familiare, quasi come fosse casa. Nei musei d’arte antica, che sono i luoghi delle nostre reliquie, di quello che resta, di quello che è rimasto delle rovine, su cui centro il mio lavoro cercando di farle parlare, trovo che la bellezza sia in ciò che resta di un mondo che non c’è più, che è passato ma che vive in noi, che riconosciamo. Nel momento in cui una persona si alza in piedi e dice le parole di sempre, quel passato è vivo. Credo che il senso dell’arte stia proprio lì, nell’avere un rapporto con gli antenati. Warburg parlava di «Pathosformel», forme di pathos, che sono riconoscibili nella storia dell’arte, che ricorrono ed esistono anche nella letteratura e sono l’aspetto fondamentale. Noi ci portiamo dietro questo carico, no? In quanto poeta in residenza creerò una serie di contenuti audio, video, testuali che poi verranno distribuiti dai vari canali del Museo Nazionale Romano, sul suo sito ecc... Saranno materiali ispirati alla collezione e questo è quanto.

Com’è riuscito a creare questa rete di «star» che nei più importanti musei del mondo recitano le sue poesie davanti alle opere che le hanno ispirate? 
Il primo che mi ha letto è stato Michael Imperioli a New York, attore e sceneggiatore noto per la serie «The Sopranos». È partito tutto mandando un’email, poi si è creato un circuito. Willem Dafoe, ad esempio, è stato coinvolto da Abel Ferrara: «Questo poeta che mi piace vuole che gli leggi una cosa», gli ha detto. Nascono così legami di conoscenza che creano un’altra conoscenza. Però a Kevin Spacey ho mandato un’email, anche se le persone non ci credono. Gli ho semplicemente spedito una lettera con la posta elettronica spiegandogli l’idea del progetto. Nonostante in quel momento fosse bannato dal mondo del cinema, continuava a ricevere tante offerte a partecipare a questo e a quello. Tra tutte queste però era rimasto colpito dalla mia proposta di fargli leggere le mie poesie sul «Pugile». È accaduta una coincidenza forte, e lui l’ha vista. Ha capito che probabilmente c’era un’attinenza con la propria vita e con questo pugile ferito. Dargli la voce credo sia stata la cosa più importante per la mia poesia.

Una volta il poeta era il bardo, era colui che cantava del materiale preesistente. Quando si verificò la separazione delle arti, la poesia lirica da una parte e il dramma dall’altra, il poeta smise di essere lui stesso l’espressione del proprio materiale. In quel momento ci voleva per forza una voce. Una maschera, semplicemente, con la voce, perché la voce era importantissima. L’attore agli inizi aveva la maschera perché il volto e la corporalità non erano così importanti. Era più importante la voce, suscitare, attraverso la modulazione della voce, l’impressione tra il pubblico. L’attore porta una personalità, e nel caso di Spacey apportava una sua storia che coincideva con questo pugile messo all’angolo, offeso dalla vita.

Franco Nero legge «Il Pugile» di Gabriele Tinti. Cortesia di Massimo Nicolaci

Paolo Moreno ha parlato di «trascendente stanchezza che trapela dal Pugile in riposo». E Spacey si è identificato, ha dato una voce a questo «perdente». 
Non è perdente, i Greci celebravano soltanto atleti vincenti. È anche vero però il fatto che a Brescia, pochi mesi fa, il pugilatore è stato messo in relazione con la «Vittoria alata» al Capitolium. E questo volgersi suo del capo crea l’enigma. Un volto patetico, che guarda e noi non sappiamo questo volgersi del capo a che cosa miri, se appunto a essere incoronato dalla Vittoria, com’è nell’interpretazione di Brescia, oppure se attenda la chiamata da Zeus o guardi il pubblico. Però, ecco, quella della Vittoria è una cosa molto intrigante. Il pugile appare così segnato perché al tempo si combatteva con i «cesti», delle fasce di cuoio rigido imbottite di lana, che creavano delle tumefazioni. Alcuni, visto che era così segnato, hanno ipotizzato che fosse Mys di Taranto, un quasi sempre perdente, che vinse soltanto a Olimpia nel 336. Sono però solo ipotesi. Probabilmente aspettava di essere incoronato vincitore, ma la Vittoria è greca, e come sempre quando i Greci facevano qualcosa di plastico era un’immagine piena di contenuti. La scolpivano con uno scudo, che a Brescia manca, dove scrivevano il nome del vincitore. La Vittoria era però alata, cioè la bellezza dell’incontro tra un mortale, sia pure eccezionale come un pugile che aveva vinto, e la dea non poteva durare più di quel momento. Il pugile, benché vincitore, era deprivato della possibilità di raggiungere una vera, duratura vittoria, cioè di trattenere la dea che è destinata a sfuggirgli, proprio perché alata. Lui viene creato in un periodo in cui il mondo della grecità è in crisi, per quello sentiamo questa scultura così vicina. Perché ci parla di un uomo soltanto, non di un’umanità privilegiata nel rapporto con gli dèi. Un uomo consapevole probabilmente del fatto che la vittoria, che per estensione si può considerare il piacere, la gioia, la vita, è appunto destinata a essere una questione transitoria. Un momento.

Colpisce in lei la compresenza di due aspetti all’apparenza antitetici, l’interesse per il pugilato e per la poesia...
Ho sempre avuto un grande amore per il pugilato, pur non praticandolo, e fin da ragazzino ho frequentato pugili, perché mio padre mi portava a vedere un campione italiano di Senigallia. Anche il campione mondiale dei medi, Sumbu Kalambay, vive da queste parti. Ho sempre amato il pugilato, come estetica e non solo, sono rimasto toccato dalla violenza e dalla profondità di questo sport. Walter Pater diceva che il pugilato è una delle belle arti.

È difficile pensare a due uomini che si prendono a pugni come a una forma d’arte.
Tutti gli sport in qualche modo tendono al pugilato, però non lo sono. Nel senso che non ci sono quella responsabilità, quella tensione o quel carico del pugile nel momento in cui si mette in piedi, solo, di fronte a tutti e si confronta con l’altro. Nel pugilato c’è molta poesia perché c’è solitudine, c’è il sangue, e ogni rito del sangue è il rito del passaggio, della soglia che contiene qualcosa che trascende l’uomo nel momento in cui c’è uno scambio così profondo. Il pugilato riassume la danza, il dramma del conflitto. Il pugile si allena con l’ombra, con i propri demoni; spesso l’altro che combatte è sé stesso. E il pugilato è una bella arte per tutti questi motivi. Se si pensa a Mohammed Ali è subito evidente. Ma anche se si pensa al più brutale, Mike Tyson. Era un pugile che veniva dal ghetto, con la mamma alcolizzata e prostituta. Nel pugilato, però, Tyson ha trovato il suo tempio, la sua casa e la sua disciplina, e ciò gli ha fatto perdere anche gli istinti peggiori, che in un qualche modo vengono contenuti nel pugilato. Per il riguardante il pugilato è attraente a più livelli; a vedere la boxe c’è l’intellettuale come la persona famosa e l’operaio, perché suscita una serie di questioni fondamentali: fino a che punto voglio che quella persona prevalga sull’altra? Quanto questa cosa mi seduce, mi piace? C’è sessualità, c’è tutto lì dentro.

Abel Ferrara legge «Rovine» di Gabriele Tinti alle Terme di Caracalla a Roma. Foto cortesia Edoardo De Angelis, Roma

Anna Maria Farinato, 21 marzo 2024 | © Riproduzione riservata

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