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Da sinistra, Francesca Rosi, Costanza Miliani e Laura Cartechini mentre eseguono analisi non invasive di spettroscopia infrarossa con strumentazione portatile sulla versione a tempera del 1910 dell’«Urlo». © Molab (Cnr-Scitec, Italia)

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Da sinistra, Francesca Rosi, Costanza Miliani e Laura Cartechini mentre eseguono analisi non invasive di spettroscopia infrarossa con strumentazione portatile sulla versione a tempera del 1910 dell’«Urlo». © Molab (Cnr-Scitec, Italia)

L’Italia ha risposto all’Urlo di Munch

Una squadra internazionale guidata da uno staff italiano ha scoperto le cause del degrado dei gialli nel capolavoro dell'artista norvegese

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Redazione GDA

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Se «L’urlo» di Edvard Munch sembra generare onde nel giallo e arancio del cielo e nel verde e blu del paesaggio rendendo il dipinto un’icona delle angosce del Novecento, altro angustiava i conservatori del Munch Museet di Oslo. Alcune aree gialle mostravano un allarmante decadimento del colore: il collo dell’uomo urlante, il fiordo in fondo al punto di fuga prospettico e le striature del cielo si erano sfaldati e imbiancati rispetto ai colori originari.

Per comprenderne le ragioni, l’istituto norvegese ha affidato la ricerca a una squadra internazionale guidata da uno staff italiano. Il gruppo di ricercatrici e ricercatori ha analizzato la versione a tempera eseguita intorno al 1910 (la prima versione a pastello su cartone è del 1893-94) e ha sciolto l’enigma: la causa del degrado non è la luce, che obbliga il museo a tenere il dipinto a lungo al buio, bensì il grado di umidità.

Letizia Monico del Cnr di Perugia spiega: «Come chimici esperti di materiali delle opere d’arte abbiamo analizzato composizione e stato di degrado dei gialli di cadmio del dipinto perché i conservatori del museo avevano notato che la pittura era sfaldata e aveva cambiato colore nelle zone dove il pittore aveva usato questo pigmento». Poi avverte: «Siamo un’équipe internazionale quindi la ricerca è stata coordinata e guidata dal Cnr ma gli enti coinvolti sono numerosi».

L’elenco è lungo: le Università di Perugia e di Anversa, il Munch Museet, l’European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble, il Deutsches Elektronen-Synchrotron di Amburgo, la piattaforma europea Molab (Mobile Laboratory) finanziata dalla Commissione europea nel progetto Iperion-Ch, coordinata dalla direttrice dell’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale (Ispc) del Cnr Costanza Miliani (nessuna parentela con chi scrive, Ndr).

«Due fattori possono aver inciso sulla conservazione, il fatto che Munch metteva le sue opere all’aperto e il furto del 2004: l’opera venne recuperata due anni dopo, ricorda Letizia Monico. Con strumentazioni portatili del Molab abbiamo analizzato a Oslo i materiali della superficie pittorica e abbiamo visto che il pittore aveva usato varie tipologie di giallo di cadmio: quelle più degradate avevano additivi contenenti cloruri, i probabili responsabili del degrado. Poi abbiamo analizzato dei microframmenti nel sincrotone di Grenoble. Il giallo di cadmio è un solfuro e tende a trasformarsi in solfato di cadmio che è un composto bianco per cui il giallo diventa bianco. Nella zona del fiordo la pittura si va sfaldando, alcune nuvole si sbiancano e nel collo della figura urlante, in origine giallo, si vede chiaramente che è in corso un degrado».

A che cosa si devono le trasformazioni? «Abbiamo riprodotto in laboratorio stesure pittoriche con gialli di cadmio di composizione chimica molto simile a quella dei colori usati da Munch e li abbiamo sottoposti a vari trattamenti. Abbiamo scoperto che la causa non è la luce come si pensava quanto l’umidità. Un fattore più facile da controllare, per un museo. Quindi non serve più esporre solo raramente “L’urlo”».

Il degrado può essere recuperato? «Ritengo sia irreversibile, risponde la Monico. Per recuperarlo occorrerebbe agire chimicamente e non credo che un museo lo consenta. Sarebbe peraltro discutibile, anche le alterazioni fanno parte della storia dell’opera e il nostro lavoro è più orientato a una conservazione preventiva. Ricordo che tutte le nostre campagne sono non invasive». I risultati delle analisi sono stati pubblicati sull’autorevole rivista «Science Advances» con Letizia Monico come prima firma.

Redazione GDA, 28 settembre 2020 | © Riproduzione riservata

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