Gian Enzo Sperone
Leggi i suoi articoliQual è la differenza tra una banana e un orinatoio? La differenza oggettiva è che la banana si mangia e l’orinatoio no. Entrambi, però, hanno una funzione pratica e si possono comprare facilmente, essendo tutt’altro che cose rare. La differenza soggettiva, naturalmente, ha più sfaccettature, come facce diverse hanno i fruitori dell’arte e l’arte stessa, ovunque si produca e in qualunque parte del mondo, perché di questo stiamo parlando. Sin dal 1917, anno in cui (sembra passato un secolo ed è proprio così), il massimo responsabile della rivoluzione modernista, Marcel Duchamp, cubista e dada prima e surrealista poi (dove lo precedette sin dal 1909 Giorgio de Chirico), fresco campioncino degli scacchi, ha poi dato scacco matto a tutti esponendo un ready made e diventando un vero campione. Il problema è stato rimosso e ne dibattono ormai solo i professori, cioè le menti meglio attrezzate per spaccare un capello in quattro o in multipli di quattro. Da allora, un’aura sacrale circonda il suo nome e non è bastato un secolo per trovare chi gli desse scacco matto: vediamo di non farne passare un altro. Io, come fruitore d’arte, non disinteressato e anzi assatanato, propongo anche, e non come cittadino della Repubblica delle banane, e non senza qualche credenziale, di ricominciare a scazzottarci sul grande scacchista. Arturo Schwarz, trotzkista a oltranza, intollerante quanto inconoscibile, studioso della cabala, è noto soprattutto come amico di M.D., nonché suo massimo esegeta (anche meglio di Robert Label); si rivolterebbe nella tomba se scoprisse che io non ho mai letto o capito le sue pagine memorabili sull’orinatoio (la celebre opera «Fontana»). Per fortuna, da là dove sta, non è mai tornato nessuno a parte Gesù Cristo.
Sin da quando portavo i pantaloni alla zuava di seconda mano, ereditati da mio cugino, mi ero messo in testa che l’unico personaggio del mondo dell’arte, fra i tanti operatori e studiosi, per cui valesse la pena di dannarsi l’anima, era proprio Arturo Schwarz. Con viaggi fortunosi in autostop dal Piemonte meridionale sino a Milano centro, sono riuscito finalmente a vederlo. La sua vita avventurosa aveva avuto su di me, giovane stanziale e aspirante al sogno, una profonda impressione, così profonda che ero riuscito a conoscerlo solo dopo vari tentativi penosi e anche umilianti. Da allora ricordo i suoi occhi saettanti sotto lenti di qualche millimetro, che però si raddolcivano illuminandosi, appena gli si chiedeva se conoscesse Duchamp. Questo conferma che esiste un problema, una mitologia codificata per cui non se ne può parlare con accenti interrogativi a meno di essere disposti a diventare bersaglio di fischi e fiaschi incrociati. Ad Einstein (con le dovute proporzioni) sono stati destinati lazzi e smorfie come del resto a Freud, una delle menti più fervide e originali del secolo scorso, sono arrivati ripetuti sghignazzi. Per non parlare del «Signor Tesla». Apparentemente non c’è nesso tra loro e l’orinatoio, ma, guarda caso, M.D. è sempre stato invece un intoccabile perché ha avuto schiere di esegeti zelanti molto appassionati. Quando l’intelligenza si nutre di sé stessa e poi scodella paradossi belli come le aurore boreali, semina le premesse per creare una religione, non rivelata ma sostenuta da adepti che al momento necessario diventano guerrieri e custodi; con loro è meglio non mettersi a sottilizzare.
Quanto farebbe in asta l’orinatoio del 1917? Questione banale e venale perché, come diceva Leo Castelli, i prezzi dell’arte sono simbolici e non corrispondono a tabelle estetiche (ma i soldi sono veri); allora bisogna aggiornare le tabelle merceologiche. Ma i soldi possono comprare tutto o dare valore a tutto? Anche nelle cose d’arte? Quello che è in vendita ha già un prezzo e quindi si può comprare, dunque le banane di Cattelan (di cui esistono tre versioni identiche più due prove d’artista?!), sono mangiabili e sostituibili, ma sono anche un simbolo della libertà degli artisti di inglobare e poi magari irridere i modelli prescelti, anche quelli mitici. Come opera d’arte, questa banana è la più effimera di sempre se si escludono oggetti di uso comune tipici degli happening d’antan. Potrebbe anche entrare nel Guinness dei primati insieme alle opere immateriali Nft; suggeritemi voi in quale categoria concorre, ma evitiamo il turpiloquio. Bisogna però riconoscere che su quella lunghezza d’onda ci sono già stati altri precedenti «eduli». Se si voleva questionare era già un buon momento nel 1985 quando, Mario Merz espose nella mia galleria di New York una delle sue «spirali» più riuscite (un tavolo di ferro e vetri di un diametro di sei metri) decorato di frutta e verdura. Voleva che la superficie fosse ricoperta completamente di frutta e verdura fresche di stagione che andavano rinnovate ogni tre giorni per evitare problemi di igiene e per la gioia dei verdurieri di Soho che hanno avuto una incomprensibile impennata di vendite.
Nel 1969 Giovanni Anselmo imponeva di cambiare ogni due giorni l’insalata per la sua «Struttura che mangia» (di granito e che richiedeva a giorni alterni carne sanguinolenta), così come nella mia galleria a Torino nel 1968 Jannis Kounellis aveva esposto un grande bellissimo pappagallo, per il cui nutrimento per tutto l’arco di tempo della mostra servivano parecchi chili di semi di girasole (questi ultimi non in vendita). In ultimo, ma è anche il primo esempio del dopoguerra, bisogna citare l’opera di Piero Manzoni delle uova sode con l’impronta del suo pollice che venivano distribuite in galleria. Non è il caso dei suoi «panini», per mangiare i quali si sarebbe dovuto distruggere l’opera. Dimentico sicuramente qualcuno o qualcosa, magari di un certo rilievo e di altrettanta radicalità, ma il punto è che non c’è bisogno di accatastare tutte le occasioni in cui sono esposte cose mangiabili, per fare un regesto delle stranezze del Novecento; una ancora però la devo includere e sono le sculture in cioccolato di Aldo Mondino, o il caffè e gli zuccheri dei suoi quadri e tappeti. Basta questa ultima banana a mantenere nutriente il dibattito. Cattelan è un uomo di ingegno come lo era Duchamp anche se su una scala diversa: certo può permettersi di reiterare, per non dire resuscitare il problema che dura da più di un secolo.
C’è anche un punto che mi preme sottolineare ed è: sono diventato io così obsoleto da non capire più un’acca delle ragioni delle avanguardie, o abbiamo un po’ esagerato? Ognuno per le sue competenze?
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