«Uomini e genti abbiamo conosciuto, lasciateci ora conoscere il nostro cuore e rallegrarsi di esso» (da Elegie di Johann Wolfgang von Goethe). Questo incipit, in un mondo come quello di oggi, in cui per fare una gastroscopia in una struttura pubblica ci vogliono due anni di tempo e in cui le case vengono occupate da abusivi, più bisognosi dei bisognosi legittimi che nemmeno la polizia può intimorire, e alcune nostre città e pianure vengono ripetutamente alluvionate, parlare e pensare come Goethe, e cioè su che cosa può e non può fare l’arte, suona piuttosto stridente. Proprio lì cominciano i malintesi: ma a che cosa serve l’arte? Certo, non a risolvere i problemi di cui sopra, né i cambiamenti climatici, né la mancanza di cibo e di acqua in un mondo che si restringe sempre più, dato che i miliardi di umani continuano a crescere esponenzialmente. L’arte serve a porci domande senza risposta, lasciandoci liberi anche di andare a sbattere contro un’estetica stralunata, sguaiata, senza qualità e senza prospettive, ma ogni volta con un’infinitesima possibile crescita dell’anima attraverso la contemplazione del bello e la pratica del dubbio. C’è anche un problema di riserva: i prodotti dello spirito (già, perché i manufatti artistici, quello sono) possono circolare nel mondo come le correnti d’aria? Liberamente e perigliosamente senza che si ergano confini inutili, dogane arcigne e porti inospitali.
Arrivo al dunque. Ci toccherà aspettare due anni per ritornare a Firenze, alla Biennale dell’Antiquariato di Palazzo Corsini, da poco conclusa. Lo dico innanzitutto a me stesso, nostalgico incallito e frenetico «accumulatore seriale» di opere d’arte, antiche e del mio tempo. Questo avvenimento mi mancherà, perché, oltre a essere una magnifica immersione per dieci giorni nel mare profondo dell’arte, avviene in un edificio di alta valenza estetica, di per sé unico (mi dispiace per le altre fiere, ma è così). Palazzo Corsini diventa dunque un museo dell’arte, dove puoi incappare in delizie di tutte le epoche senza dover uscire per strada. C’erano, oltre ai migliori antiquari d’Italia, un nutrito drappello di importanti gallerie inglesi, come Dickinson, Nicholas Hall e Agnews, ma zero gallerie americane o tedesche (un solo mercante parigino: Galerie Canesso), il che la dice lunga sull’annosa questione (era così già quando ero ragazzino) della difficoltà di spostare e far circolare, in importazione o esportazione, lavori d’arte. È facile trasferire automobili, così come armi, ma è un’impresa far viaggiare l’arte. Ci sono state, nel frattempo, epidemie devastanti, guerre a non finire, poveri cristi in fuga dall’Africa e dall’Oriente e, soprattutto, si sono succeduti decine di governi di tutti i colori, tutti ottusi e appiattiti sul mantra noioso che le opere d’arte, in quanto parte dell’eredità nazionale, anche quelle in mani private (gli stessi poveri cristi abbagliati dall’idea di creare collezioni), non devono circolare oltre le Alpi e la Sicilia (figuriamoci dal Manzanarre al Reno). Eppure, le civiltà sono sempre cresciute grazie allo scambio delle merci.
L’Italia, invidiata da tutti per i suoi giacimenti culturali, lascia dunque alle opere «minori» o a quelle maggiori, ma di cui esistono varie versioni, divieto di circolare liberamente e senza passaporto. In tutte le Soprintendenze c’è una specie di frenesia a farsi cacciatori di teste per opere che non devono spostarsi per nessun motivo (anche le più normali), pena il decadimento della ricchezza del patrimonio collettivo (a testimoniare la ricchezza del quale basterebbe scendere nei depositi di qualsivoglia museo). Questa caccia impedisce a tedeschi, olandesi, francesi, svedesi e belgi e, soprattutto, americani e orientali di avventurarsi nelle fiere italiane: parliamo di fiere d’élite, ovviamente. Qui a Firenze sono stati notati numerosi curatori e direttori di musei americani: Getty Museum di Los Angeles, National Gallery of Art di Washington, Saint Louis Art Museum, Musée des Beaux Arts di Orléans, Museo Nazionale d’Arte Lituano di Vilnius e Musée du Louvre, tanto per citarne alcuni. Ma, oltre a farsi una bella scampagnata fiorentina, troverebbero degli scalpi da portarsi indietro? Parlando di cibo, è come se si potessero comprare solo le frattaglie, visto che le altre parti commestibili diventerebbero dei miraggi (come quelli erotici vietati ai minori): solo guardare e non toccare? Ma non si è sempre insegnato a scuola che i prodotti dello spirito non conoscono confini né dogane dogmatiche? E che, se anche usi i roghi, non puoi contenere lo spirito?
Dunque, la Biennale fiorentina non può crescere a livello internazionale come Maastricht o, teoricamente, come le mostre inglesi, perché il pubblico di visitatori e operatori è qui discriminato e penalizzato. Un vero peccato, visto che siamo leader (quasi) nei vini e nei formaggi (abbiamo miseramente perso le automobili) ma non possiamo concorrere nella leadership delle arti visive per questa eresia protezionista. Nei corridoi della Biennale, ho incontrato, tra gli altri, il direttore «emeritus» del Metropolitan Museum di New York, Keith Christiansen, i cui occhi luccicavano di gioia per il solo fatto di essere a Firenze, e figuriamoci poi quando era di fronte a Tiziano, nello stand di Carlo Orsi, una «Madonna con il Bambino e santa Maria Maddalena» (1555-60), che si dice di qualità superiore a versioni con lo stesso soggetto dell’Ermitage, di Capodimonte e degli Uffizi stessi. Ebbene, quest’opera, proveniente da una collezione privata di New York, sta lì a significare che la storia è fatta di cambiamenti repentini e imprevedibili. Un graffito sulla facciata di un’antica casa dell’Engadina, dove vivo, recita: «Le famiglie vanno e vengono sotto il cielo eterno».
Da Robilant & Voena, c’era un bellissimo ritratto di Andrea Appiani del tenente generale e poi ministro della Guerra della Regia Marina sotto Napoleone, Achille Fontanelli di Modena, di una levigatezza strepitosa. Sarebbe stato commissionato e dipinto nel 1813, ultimo come soggetto legato a Napoleone «avant le déluge». Altomani ha esposto un «San Sebastiano» del Guercino (recentemente ristudiato), di alta qualità. Qua e là, dipinti seri come il Bernardo Strozzi (da Iotti) e il «Ritratto di Alessandro Ridolfi» di Alessandro Rosi (da Botticelli). Due acquerelli eccezionali di qualità museale (da Orsini arte e libri), un mobile delizioso di Piffetti (da Burzio), due bellissimi sogni di Giacobbe di Desubleo, in verità molto simili, da Cantore e da Fondantico di Tiziana Sassoli. Il Salvator Rosa, «Baccanale» (da Porcini), che ho anche pensato di comprare, brillava al piano superiore insieme a un autoritratto «matto» di Antonio Mancini (da Maurizio Nobile). Da Alessandra Di Castro, spiccavano due vasi di marmo bianco di fine Settecento, con inserimenti in micromosaico, di qualità assoluta, insieme a un’«Onfale», dipinta dal pittore Franceschini, detto il Volterrano, assai amato dall’aristocrazia fiorentina. Un ritratto melanconico e «goyesco» (da Carlo Virgilio), di Giovanni Andrea de Marinis, marchese di Genzano, 1790, di Domenico Pellegrini, pittore veneziano protetto da Antonio Canova, ricorda un tragico epilogo negli anni della Repubblica napoletana, ove lo stesso, legittimista convinto, cercò in tutti i modi di salvare il figlio rivoluzionario dalla decapitazione (dando una cena nel proprio palazzo con i componenti della corte che però avevano già emesso la sentenza di morte). Il figlio giustiziato, Filippo de Marinis, è ricordato anche per aver voluto baciare il boia, che lo avrebbe subito dopo decollato. La qualità della pittura è indiscutibile, la storia sottintesa strappalacrime. Altri quadri di grande qualità, rispettivamente da Benappi, con un giottesco, fiorentino della fine del Trecento, Niccolò di Pietro Gerini, di bellezza eccezionale, e nella galleria Brun, con gli episodi della vita di Sansone, in quattro meravigliosi oli su tavola del Genovesino.
Potrei continuare a lungo, rischiando di diventare stucchevole nei dettagli, visto che non faccio il giornalista e non ho obblighi di obiettività, ma mi fermo qui perché mi sembra di aver fatto capire che le opere esposte nel loro insieme erano di alta qualità e la Biennale stessa si riposiziona come il miglior paradiso di caccia per i musei e i collezionisti in Italia. Per gli stranieri, battano un colpo i politici di turno. Non che non conti parecchio l’impeccabile organizzazione degli spazi, della cena d’onore a Palazzo Corsini e poi il gala a Palazzo Vecchio, nel suo insieme unico al mondo per la bellezza e la storia del luogo, ma certo è che ha avuto un grande peso il direttore Fabrizio Moretti (installatosi nel 2014), con qualità personali che da sole fanno la differenza e profumano di internazionalità (sviolinata!): mercante di successo a New York e Londra, noto per l’indiscussa competenza sui «fondi oro» trecenteschi nonché collezionista entusiasta, ha portato quella ventata di glamour (non solo culturale) che è anche il sale della vita e degli affari. Lo scrive chi, come me, presente a New York con una galleria d’arte dal 1972 e che di cose, case, musei, fiere e personaggi di caratura ne ha visti tanti, ma non ha mai saputo brillare in proprio di glamour e non può che dare un voto altissimo alla gestione della Biennale di questo giovane antiquario: Moretti non disdegna le posture del marketing internazionale, ma non cede e non ha mai ceduto alle tentazioni del mercato di quantità e crede che tutto si possa pensare e fare, purché con stile. Goffredo Parise, nell’ultimo libro scritto nel 1982, poco prima di morire e dopo un ultimo viaggio in Giappone, dal titolo L’eleganza è frigida, interloquendo con un immaginario viaggiatore italiano, gli diceva a getto continuo: «Tu che vieni dal Paese della politica». Sarà possibile che noi italiani, così difficili da governare ancorché geniali, dobbiamo ancora subire l’oltraggio di una politica dalla presenza a dir poco asfissiante e distratta per le faccende dell’arte? Non è questo un danno imperdonabile per una Nazione che è stata culla delle Arti?
P.S. Mi astengo dal commentare la qualità delle poche gallerie d’arte moderna presenti, perché parte in causa. Ma il mio sommesso grido di dolore per la scarsità di operatori di livello che in questa Nazione, dai primi del Novecento al secondo dopoguerra con mercanti straordinari, ha sostenuto allevandoli, talenti d’avanguardia dal Futurismo alla Metafisica, dall’Astrazione all’Arte Povera, sino alla Transavanguardia dei primi anni ’80, vuole svegliare chi ha mezzi per primeggiare. Sono nate eccellenze assolute come Balla, de Chirico, Morandi, Fontana, Burri, Manzoni, Boetti, Merz, Anselmo, Paolini, Pistoletto e Piacentino (per citare almeno i più noti), che non devono rimanere solo pagine di storia. Ho letto di recente un articolo di Ugo Nespolo che si distingue come un artista dotato di buone ed estese letture e di una rara, approfondita cultura trasversale letteraria, filosofica e artistica.
Per il gallerista e collezionista torinese le opere bisogna farle circolare, scambiarle e condividerle. Anche se non ci si vorrebbe mai separare da loro
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