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Franco Fanelli
Leggi i suoi articoli«Come tutte le altre specie animali gli uomini migrano: lo abbiamo sempre fatto e sempre lo faremo. E nel corso dei fenomeni migratori abbiamo sempre incontrato ostacoli: climatici, politici, economici. La nostra vera forza è il coraggio di superarli». Così Pietro Ruffo (1978), uno degli artisti le cui opere fanno parte della Collezione Farnesina.
La spinta allo spostamento, al viaggio, non è sempre determinata da necessità materiali. Uno dei testi fondativi della nostra cultura, l’Odissea, racconta del lungo peregrinare di un uomo e dei suoi compagni che, mossi dalla volontà di ritornare a casa, intraprendono un viaggio destinato a diventare mito. Il seguito di quel viaggio è una nuova partenza, narrata da Odisseo a Dante Alighieri nella prima Cantica della Divina Commedia: l’eroe che ha conosciuto, sfidato e vinto l’inconoscibile e l’invincibile, è ancora assetato di conoscenza e salpa nuovamente verso l’ignoto.
Il viaggio è talora necessità, ma è sempre conoscenza ed esperienza, è metafora dell’esperienza, nonché uno dei temi prediletti dall’arte e dalla letteratura. Non importa lo spazio percorso: Odisseo cantato da Omero giunge sino al nostro secolo attraverso l’Ulysses di Joyce, che altri non è se non il dublinese Leopold Bloom, la cui odissea borghese si dipana nei limitati confini geografici della sua città.
Un nuovo viaggio nel mito e nella storia è quello intrapreso da Mimmo Jodice (1944) tra il 1990 e il 1995. Non poteva che essere un fotografo profondamente radicato a Napoli, nel cuore del Mediterraneo a guardarsi intorno e rendersi conto che, dalle sponde di quel mare, gli dei ci osservano. L’obiettivo di Jodice, nelle splendide immagini in bianco e nero della serie «Mediterraneo», frutto di ripetuti viaggi dalla Spagna al Medio Oriente, dalla Grecia alla Francia del Sud, non si limita alla documentazione, ma aspira all’evocazione.
Come gli eroi del mito, Jodice sa che affinché la divinità si riveli occorre mettere in campo tutta l’intelligenza e l’abilità di cui si dispone: nel suo caso, la tecnica e la sensibilità. Solo così marmi e bronzi, teatri antichi e colonne, manifesteranno il loro segreto, daranno la risposta che cerca l’umano che li interroga. Solo allora «Il compagno di Ulisse», una delle sculture raffigurate, alzerà di nuovo lo sguardo dal remo e, volgendosi verso l’orizzonte, riprenderà il suo viaggio.
Gli artisti viaggiano da sempre: «J’ai été à New York», scrive Giorgio de Chirico per intitolare poche pagine dense di meraviglia e di sgomento dopo l’impatto nel 1936-37 con le «babilonesi» architetture di Manhattan, nuova «location» per i «Bagni Misteriosi». Nel 1961 Lucio Fontana da Oltreoceano, scrive: «New York è più bella di Venezia! I grattacieli di vetro paiono delle grandi cascate d’acqua che precipitano dal cielo». Quella «Venezia verticale» ispira a Fontana nuove opere, lucenti, incandescenti superfici di rame solcate da tagli.
Afro Basaldella (1912-76) approda a New York nel 1950, dove inizia la sua lunga collaborazione con la galleria Catherine Viviano. Vi rimane otto mesi e scopre nei protagonisti dell’Espressionismo astratto, come Franz Kline e Willem de Kooning, i suoi punti di riferimento. Ne aveva sentito parlare a Roma da un grande artista italoamericano, Conrad Marca-Relli, che aveva lo studio in via Margutta; e lui, Afro, da New York esorta la romana Galleria l’Obelisco ad accogliere l’opera di Arshile Gorky, altro artista nomade, un armeno che aveva attraversato l’Atlantico, in fuga dalle persecuzioni. «Le città d’America» (1952), una delle opere di Afro nella Collezione Farnesina, coglie l’artista udinese nella sua prima, decisiva maturazione.
In Europa l’influenza di Picasso non risparmia nessun artista della sua generazione. Afro vi si sottrae una volta a New York. Non è ancora, nel ’52, il momento dell’ormai imminente svolta gestuale. Ma è come se, rispetto ai dipinti precedenti la partenza per l’America, la solida e rigorosa costruzione compositiva e formale che caratterizza la sua opera si aprisse, pure nella sobria armonia cromatica, al sogno, alla visionarietà, elementi che l’autore stesso ricondurrà al messaggio lasciato da Gorky, prematuramente scomparso nel 1948. Il rigore, la magistrale orchestrazione dei colori, resteranno, s’è detto, un bagaglio prezioso nel prosieguo della ricerca di Afro: e lo si coglie con particolare forza nei tre mosaici, che insieme a un dipinto del ’70, completano il nucleo di sue opere alla Farnesina.
Quando Mario Schifano (1934-98) si affaccia sulla scena dell’arte, New York ha ormai destituito Parigi dal ruolo di capitale mondiale dell’arte contemporanea. Nel 1964 il Gran Premio per la Pittura assegnato a Robert Rauschenberg alla Biennale di Venezia sancisce, anche in maniera simbolica, questo passaggio di consegne. L’arte americana, attraverso l’immediatezza iconica della Pop art, dilaga, ed è con quella che anche Schifano, figlio di un archeologo impegnato in campagne di scavo in Libia (di qui la nascita dell’artista a Homs), fa presto i conti, assorbendone alcuni elementi, ma soprattutto l’incoraggiamento a muoversi su più media, temi, soggetti e fonti appartenenti a un presente tecnologico, industriale, massificato. È il messaggio di Andy Warhol, ma filtrato attraverso la cultura e il gusto di un artista italiano. Anche Schifano dipingerà il logo della Coca-Cola, ma lo farà con la maestria, l’agilità e il calore che solo un pittore europeo, cresciuto a Roma, la città della grande pittura e architettura barocca (ma anche dell’Antico), può mettere in campo. Anche nel periodo in cui le correnti predominanti saranno quelle di matrice concettuale, Schifano manterrà sempre un profondo rapporto con la pittura.
Dopo i «Paesaggi anemici», i cui elementi erano decostruiti sino a eliminare ogni suggestione naturalistica (e la pittura industriale a smalto sostituisce gli antichi pigmenti a olio), dopo i «Paesaggi televisivi», desunti dal flusso di immagini «liquide» della TV, l’ultimo Schifano utilizza il tema del paesaggio come luogo di un viaggio della memoria e dell’immaginario. Come ha notato Alberto Arbasino, nei notturni dell’artista romano convivono i cieli stellati di Van Gogh e quelli delle pubblicità dei Baci Perugina; dai viaggi di Schifano in Africa e in Oriente affiorano altre immagini: palme, personaggi di Ukiyo-e, le antiche stampe giapponesi, sciami di aerei turistici in volo.
Se nell’Ottocento la moda orientalista invade la pittura sulla base di viaggi veri o solo immaginati, Schifano, nel 1992, esegue «Round-Trip of your Mind», letteralmente: il viaggio della tua mente andata e ritorno, ma «Round-Trip» era anche il titolo del primo film di Schifano, nonché una celebre composizione del jazzista Ornette Coleman. In «Round-Trip of your Mind» mette in scena contemporaneamente mondi lontanissimi ora a portata di mano, nell’era del turismo di massa, quasi preconizzando gli effetti della globalizzazione. Riuscendo ancora, però, come scrisse il critico Cesare Vivaldi nel catalogo della sua mostra alla Galleria Odyssia di Roma nel 1963, «a costringere il punto di vista sfigurato dell’uomo-massa a diventare pretesto di canto».
All’opposto è il viaggio alle origini di archetipi. Ne è protagonista un artista esploratore, Gastone Novelli (1925-68), che nel 1948 si inoltra all’interno del Brasile, dove entra in contatto con alcune popolazioni di indios. A Parigi, nel ’61, a contatto con Samuel Beckett, Georges Bataille, Pierre Klossowski e René de Sollier, approfondisce il suo interesse per la scrittura. Parola scritta, segno, alfabeti reali o immaginari s’intersecano nella sua pittura e nella sua scultura. Ma alla fine è la Grecia il vero, potentissimo magnete. La raggiunge per la prima volta nel 1962: «Sono partito per l’Egeo, dichiara al critico Enrico Crispolti, cercando di dimenticare ogni pre-nozione, andando a scoprire un Paese come se fosse l’Africa», per raccogliervi «un campionario di simboli, strumenti, alfabeti, segni, frammenti». Oggetti rituali come l’onfalo, la cuspide fallica che idealmente congiunge cielo e nucleo terrestre, diventano allora supporto per accogliere i segni di Novelli.
Questo pittore che intitola al viaggio (magari di un aquilone, un «quadro volante») molti dipinti dell’ultimo triennio di attività, questo artista che realizza sculture come paesaggi e che dipinge paesaggi la cui «geologia» e la cui «vegetazione» sono segni, lettere, alfabeti misteriosi, come favolosa e arcana è la sua fauna, dà vita a un mondo antichissimo e nuovo. Di sicuro, un mondo inesplorato. «Viaggio nel paese delle meraviglie» (1966), in tal senso, è quasi un quadro simbolo di un’epoca in cui, attraverso l’attività del Gruppo 63, poeti e artisti visivi cercavano una via di confluenza tra i due linguaggi.
Nella seconda metà degli anni Sessanta un artista di solida formazione pittorica, Michelangelo Pistoletto, abbandonava tele e pennelli per mescolare i linguaggi e fondare Lo Zoo, un gruppo che portava musica, letteratura, teatro e arti visive nella strada. Inizia così la vicenda di Michelangelo Pistoletto (1933), il cui viaggio muove appunto dalle strade urbane d’Italia e d’Europa. Da allora in poi il continuo coinvolgimento del fruitore nell’opera d’arte, l’emancipazione da spettatore ad attore scandiranno le tappe del suo percorso, a cominciare con le superfici specchianti, «quadri» in cui qualsiasi passante diventa soggetto.
Un’altra superficie specchiante, quella di un tavolo sagomato secondo i profili delle coste del Mediterraneo, appare in «Love Difference». A quel tavolo sono idealmente invitati tutti i popoli di questa area; le sedie di diversa foggia disposte intorno a questa piattaforma riflettente rappresentano i diversi popoli che vivono sul Mediterraneo. L’opera, dal titolo che è anche un potentissimo slogan, è, come sempre in Pistoletto, un invito a credere in un «oltre», in un’umanità futuribile: come nel calco del celebre «Oratore etrusco» che, in un’opera del 1976, allo specchio mostra uno spazio di là dai muri che l’umanità continua a costruire; o come nella riconfigurazione dell’«8» rovesciato, un segno che Pistoletto sta collocando in diverse sedi e che indica un futuro in cui il «paradiso terrestre» (e interplanetario nei desideri dell’artista) non sia più un paradiso artificiale costituito da falsi bisogni.
Diaspore, fughe, esili, nomadismi forzati, patrie negate: la storia è scandita da viaggi che, per chi li ha vissuti, hanno più della tragedia che della poesia. Pietro Ruffo, come detto, consiglia però di interpretare la migrazione come un atto naturale. Se Pistoletto aspira a un mondo in cui la migrazione abbia come risposta la convivenza e l’accoglienza, Ruffo ne racconta le dinamiche ricorrendo a un’altra vocazione dell’uomo, quella di disegnare il mondo, dare una forma al luogo in cui ci muoviamo attraverso mappe e planisferi. Non è detto che il mondo abbia la stessa forma per tutti. Nel 1994, al MoMA di New York, una bella mostra curata da Robert Storr, «Mapping», individuava nella metafora della geografia e dei suoi strumenti una presenza costante nell’arte del XX secolo.
Basterebbe pensare a nomi celebri come Jasper Johns, Alighiero Boetti, William Kentridge. Ruffo si inserisce in questa tradizione con un duplice sguardo. Uno è rivolto al passato, alla tradizione, alla antiche carte geografiche: «Osservarle, spiega l’artista, è come leggere un brano di storia». L’altro sguardo è rivolto a un presente in cui i flussi migratori stanno mutando il mondo e i popoli. Se da un muro del Cairo, in un’opera di Ruffo («Atlas Riot’s II» 2013), un elaborato traforo cartaceo fa emergere il graffito dipinto dai manifestanti durante la «Primavera araba», in «Migration Globe V», un mappamondo elegantemente decorato con lo stile degli azulejos, le piastrelle portoghesi che testimoniano la penetrazione della cultura araba nella regione iberica, è sorvolato da uccelli migratori, quasi angeli custodi dei migranti in transito. La bellezza dell’oggetto artistico si fa così veicolo della narrazione di una storia che pure ha conosciuto traumi e sofferenze.
Il messaggio di Ruffo prende corpo in un’opera frutto di una straordinaria, raffinata tecnica di progettazione, ritaglio e sagomatura della carta. Del resto, la conoscenza tecnica è spesso il bagaglio più ricco, aperto il quale il viaggio, l’approdo in una terra lontana, diventa occasione di dono e di scambio del bene più prezioso: il sapere.
La Collezione Farnesina
Alfabeti di Francesco Tedeschi
Paesaggi di Rica Cerbarano
Viaggio di Franco Fanelli
Corpo di Angela Vettese
Tempo, storia, memoria di Lara Conte

«Migration Globe V» (2017) di Pietro Ruffo. Cortesia dell’artista e Galleria Lorcan o’Neill

«Love difference, Mar Mediterraneo» (2003) di Michelangelo Pistoletto. Cortesia della Fondazione Pistoletto Cittadellarte, Biella

«Viaggio nel paese delle meraviglie» (1966) di Gastone Novelli. Cortesia dell’Archivio Gastone Novelli

«Round trip of your mind» (1992) di Mario Schifano. Cortesia di Collezione privata, Cremona

«Mediterraneo» (1990-95) di Mimmo Jodice. Cortesia della Collezione I Cotroneo, Roma
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