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La città vecchia di Kashgar è stata in gran parte distrutta, insieme al 70% delle sue moschee, e la sua popolazione trasferita © Wulingyun, 2012

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La città vecchia di Kashgar è stata in gran parte distrutta, insieme al 70% delle sue moschee, e la sua popolazione trasferita © Wulingyun, 2012

La distruzione delle moschee degli Uiguri

Un vero «genocidio culturale», dicono gli esperti, ma il Governo di Xi Jinping nega ogni accusa

Dale Berning Sawa

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Nella sola Kashgar, il 70% delle moschee raso al suolo dal 2016. La prassi più diffusa è «cinesizzare» gli edifici e rimuovere i simboli islamici, come minareti e cupole. Un vero «genocidio culturale», dicono gli esperti, ma il Governo di Xi Jinping nega ogni accusa

In un recente rapporto sulla distruzione del patrimonio culturale degli Uiguri da parte dello Stato cinese nella regione dello Xinjiang, l’Australian Strategic Policy Institute (Aspi) ha pubblicato dati sconvolgenti. Grazie a immagini da satellite, analisi e segnalazioni dai siti web, il gruppo di esperti ha stimato che, dal 2017, il 65% delle moschee e il 58% dei siti islamici della regione è stato distrutto o danneggiato, compresi templi, mausolei («mazar») e cimiteri.

È uno degli aspetti di una campagna sistematica e intenzionale di genocidio culturale, che va di pari passo con il trasferimento e la separazione dei nuclei famigliari uiguri, la criminalizzazione dei ritrovi e delle celebrazioni della comunità, la scomparsa in massa di accademici e figure culturali e l’eradicazione della lingua uigura dalla sfera pubblica. «La gente butta i libri nei fiumi, dichiara la fotografa Lisa Ross, che documenta la situazione in questa regione sin dai primi anni 2000. Prima li seppellivano ma ora hanno paura di fare persino questo». L’Aspi si è basata su un campionamento statistico per misurare le dimensioni della distruzione. La stessa Cina elenca più di 24mila moschee nello Xinjiang, un numero che rende complicato valutare la condizione di ognuna di esse.

Molte fanno parte del patrimonio culturale individuato dal Governo che, dal canto suo, nega qualsiasi accusa di distruzione dei monumenti. Le moschee inventariate comprendono edifici ufficiali, strutture tradizionali e altre più recenti. Queste ultime furono costruite, o ricostruite, negli anni di relativa apertura che seguirono la fine della Rivoluzione culturale nel 1976. La situazione è diventata più difficile dopo la salita al potere di Xi Jinping nel 2012: nella sola Kashgar, il 70% delle moschee è stato raso al suolo a partire dal 2016. Secondo Rachel Harris, etnomusicologa e specialista della cultura uigura, l’Aspi ha sottovalutato il problema: la studiosa ritiene che le moschee in pericolo nella regione siano nell’ordine dell’80%.

Nel suo report del 1998 sul patrimonio architettonico uiguro, l’architetto e antropologo francese Jean-Paul Loubes scriveva che l’architettura sviluppatasi in questa regione unisce influssi persiani e mongoli, come si evince in particolare dal pishtaq, il portale d’accesso a un edificio, simmetrico e incorniciato da minareti. «Qui siamo in Turchia, affermava, e non in Cina».

Da moschee a centri commerciali

Prima di trasformare le moschee in negozi o bar, o procedere direttamente alla loro demolizione, la strategia statale è stata quella di «cinesizzarle». I più evidenti simboli islamici (minareti, cupole, calligrafia araba) sono stati rimossi.

Nella Grande Moschea di Kargilik, costruita nel 1540, è stato raso al suolo il portale di ingresso, ricostruito poi in miniatura, e tutto il sito è stato ridimensionato per far posto a un centro commerciale. I mosaici multicolori, che comprendevano sull’ingresso un’iscrizione della «shahada», la testimonianza di fede islamica, hanno lasciato il posto a mattoni scadenti e pannelli imbiancati.

La moschea Id Kah di Kashgar del XV secolo, la più grandiosa dello Xinjiang, ha perso le strutture a stele e mezzelune che ne coronavano i suoi tetti e la lastra scolpita e multicolore che adornava l’ingresso (spostata all’interno). Tutta la città vecchia nella quale era ubicata è stata distrutta, i suoi abitanti trasferiti altrove, oltre a essere stata creata una grande piazza piena di negozi moderni. Loubes descrive questo intervento come il primo esempio di un antico spazio uiguro sostituito da uno spazio urbano cinese. La piazza della moschea Id Kah il venerdì rimane vuota. Le persone non possono più pregare in pubblico e lo Stato ha inviato funzionari nelle case per impedire la devozione privata. Questo divorzio della comunità dal suo patrimonio culturale è al cuore della politica di Xi Jinping. Lo scopo, come ha spiegato un funzionario sui media statali nel 2018, è quello di «distruggere la storia famigliare degli abitanti, le loro radici, i legami e le origini etniche».

Ancora più delle moschee, è nei confronti dei mazar che questa strategia è più devastante. Luoghi di culto presenti nei siti sacri islamici e nei cimiteri, i mazar sono storicamente sede di sepoltura di personalità venerate dagli uiguri. Visitarli è tanto un dovere religioso quanto una lezione di storia. Vanno dal sontuoso mausoleo di Afaq Khoja a Kashgar (ora trasformato in museo e inaccessibile ai pellegrini) a semplici strutture in mattoni di argilla, ad alberi solitari e sorgenti naturali nel deserto del Taklamakan.

Queste strutture sono state danneggiate a più livelli. Innanzitutto, dichiarando illecito qualsiasi raduno lo Stato ha attaccato le comunità che le mantenevano in vita. I pellegrini erano soliti cospargersi della sabbia presente in questi luoghi o ingerire piccoli frammenti di malta dalle loro pareti, che ritengono abbiano proprietà curative. Appendevano bandiere fatte a mano su cataste di pali di legno collocate ai piedi delle tombe, installazioni effimere che offrivano testimonianza «a tutti coloro che, come te, pensano che questi luoghi siano meravigliosi», spiega lo storico Rian Thum. La chiusura dei mazar, iniziata nel 1997 con quello di Ordam Padishah del X secolo, ha portato alla fine di tutte le celebrazioni nello Xinjiang entro il 2015.

Poi ci sono le perdite più recenti: il mazar in onore dell’imam Je’firi Sadiq, vicino a Niya, così come l’intero complesso di Ordam. Del mazardell’imam Asim, vicino a Khotan, non resta che un edificio in mattoni di argilla che circonda l’attuale tomba del santo: la moschea è stata rasa al suolo e tutte le parti lignee distrutte. Thum ha redatto una lista di altri siti a rischio; ogni due settimane controlla Google Earth per verificarne la conservazione.


Tesori perduti
C’è poi il timore, non confermato, per i manufatti conservati all’interno dei mazar: le gigantesche pentole storiche usate a Ordam per i pasti comuni dei visitatori; il reliquiario del XVII secolo registrato presso il mazar di Abdurakhman Wang a Yarkand da Rahile Dawut, l’eminente specialista di mazar uiguri scomparso nel 2017. Un altro studioso, che ha preferito restare anonimo, ha mostrato fotografie di una pergamena del XVIII secolo da un luogo di culto nel Sud dello Xinjiang, che illustrava una genealogia di capi sufi. Le condizioni di questi tesori restano incerte.

Ma i danni vanno oltre il solo patrimonio uiguro. L’archeologo britannico di origine ungherese Aurel Stein (1862-1943), il più famoso studioso di questa regione, riteneva che il mazar dell’imam Je’firi Sadiq e la maggior parte dei luoghi di culto che si trovano nel deserto fossero sorti su siti sacri buddisti preislamici o nelle loro vicinanze. «È un importante patrimonio archeologico che non può essere sostituito, dice Thum. Ci sono domande alle quali non è più possibile dare una risposta una volta che questi siti vengono demoliti». Il caso più noto è la distruzione della città vecchia di Kashgar, ma lo stesso è accaduto nei vecchi quartieri uiguri a Khotan, Yarkand, Karghalik e Keriya; l’eliminazione sommaria preclude ogni opportunità per gli studiosi, in un ambito che storicamente ha sempre ricevuto scarsa attenzione.

Oltre alla distruzione delle leggendarie tombe dei mazar, si perdono anche le sepolture della gente comune. Aziz Isa Ëlkün, poeta che vive a Londra ma è cresciuto nella campagna uigure, afferma: «Del mio villaggio ricordo la moschea, la scuola e il cimitero. Il legame con quest’ultimo è spirituale ma, più di questo, è la prova che quel territorio ci appartiene». Suo padre è morto nel 2017 ed è cercando la sua tomba su Google Earth l’anno scorso che Ëlkünl’ha vista rasa al suolo, con i resti di suo padre spostati con la forza. «Distruggere un cimitero è come uccidere lo spirito di un essere umano. Ed è imperdonabile».
 

La città vecchia di Kashgar è stata in gran parte distrutta, insieme al 70% delle sue moschee, e la sua popolazione trasferita © Wulingyun, 2012

Keriya, La moschea Aitika nel novembre 2018_Foto_Planet Labs

Una moschea Uyghur.Foto tratta da Facebook

Una moschea demolita in un villaggio distrutto a Kashgar:Foto tratta da Facebook

Dale Berning Sawa, 11 gennaio 2021 | © Riproduzione riservata

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