Fabio Isman
Leggi i suoi articoliIl maggior cacciatore di opere rubate è stata una singolare figura, a metà tra il diplomatico e lo 007: Rodolfo Siviero (1911-83). Siviero ha riportato a casa numerosi capolavori e ha lasciato un catalogo di 339 pagine con 2.356 opere trafugate dall’Italia durante la seconda guerra mondiale che stava ancora ricercando. Alcune sono di grande valore di Michelangelo, Tiziano, Raffaello, Tintoretto, Memling, Mantegna, Benvenuto Cellini, Simone Martini, Pietro Lorenzetti, Bernardo Bellotto, Correggio e altri. Molte sono state portate via a ebrei, tra cui tre intere collezioni di Trieste: la Morpurgo, la Pincherle e la Pollitzer. E, in più, c’è l’intera e preziosissima Biblioteca della Comunità di Roma, con numerosi volumi unici al mondo, mai più ritrovata dopo la razzia del «Gruppo Rosenberg» nato nel luglio del 1940 per sottrarre in tutt’Europa le biblioteche e quanto si riteneva politicamente importante.
Augusto Pollitzer e il figlio Alfredo, morto nel 1940, a Trieste possedevano la Adria, la maggiore fabbrica di saponi nella Mitteleuropa, e una rilevante raccolta di quadri. Opere di Jan Brueghel dei Velluti, Andrea del Sarto, Giovanni Battista Piazzetta, Guercino, Sansovino, Cima da Conegliano, Boltraffio, arazzi antichi, mobili preziosi. L’erede Andrea, velista, esploratore e fotografo, dopo la guerra racconta a Siviero che tutto era stato consegnato alla Soprintendenza, su specifica richiesta, nel 1943: 12 casse depositate a Villa Manin a Passariano (Udine), trasportate poi altrove. Andrea sostiene che alla fine ogni cosa era stata recuperata, ma non pare che sia andata proprio così: il «cacciatore» si annota ancora qualcosa da trovare. Si salvano appena un migliaio dei libri di casa, che Andrea dona allo Stato, ma erano 20mila, «la più ricca biblioteca privata della città».
Le 14 opere di Gino Pincherle, noto antifascista, vanno invece direttamente in asta in Austria, al Dorotheum di Klagenfurt, tra le vane proteste del soprintendente: anche un paio di Giovanni Battista Pittoni, un Palma il Giovane; altri quadri sono consegnati al Gauleiter (il capo di una sezione locale del Partito Nazista) austriaco Hugo Jury; altri ancora, dispersi. Partono analogamente, tutte o in parte, le collezioni di Filippo Brunner, Oscar Luzzato, Enrico Morpurgo, Giacomo Jachia: i suoi mobili antichi vengono venduti in un’asta di Dorotheum il 23 novembre 1945, anche se la guerra era finita ormai da sei mesi.
Il barone Mario Morpurgo de Nilma ha fin da subito paura delle leggi razziali. I suoi avevano fondato un paio di banche, a Trieste e in Egitto; lui ha formato una notevole pinacoteca e arredato il palazzo di famiglia, eretto da Giovanni Berlam nel 1875: un esempio di casa borghese e fasto principesco che è rimasto intatto e ora, donato al Comune, è un museo. Ma parte di quanto conteneva manca: sottratta dai nazisti, e non si rivedrà mai più, malgrado ogni ricerca. Infine, per restare a Trieste, Arnoldo Frigessi di Rattalma, fino al 1938 al vertice della Riunione adriatica di sicurtà, si era distinto «per meriti fascisti», ma gli portano ugualmente via 13 tappeti, celati nel caveau dell’assicurazione, gli arredi e altri beni artistici mandati in Germania e venduti oppure riutilizzati altrove, in altri appartamenti della città.
A Bologna viene prelevata la collezione, 50 quadri assai importanti, del triestino Ettore Modiano, quello che dà fama alle omonime carte da gioco. A Padova la Salom (anche tredici Pietro Longhi e quattro Salvator Rosa) e altre opere a 56 ebrei. A Milano tutto quanto possedeva l’antiquario Aldo Cantoni. E all’appello mancano ancora parecchi oggetti. Dalla villa di Giorgio Forti a Prato vengono portate via dalle SS «numerose casse con valori e arredi sacri della Comunità di Firenze, e beni e opere d’arte privati di proprietà dello Stato» che vi erano stati nascosti.
Nel dopoguerra vengono rinvenute intatte 14 casse con gli oggetti del tempio, ma soltanto 12 dei suoi dipinti. Messi in salvo invece dai «Carabinieri dell’arte» nel 2016, dopo 75 anni, tre quadri prelevati nel Lucchese, a Villa Le Pianore a Capezzano dei Borbone-Parma: una «Madonna con Bambino» di Cima da Conegliano, una «Trinità» di Alesso Baldovinetti e una «Circoncisione» di Girolamo dai Libri. Dopo varie peripezie erano finiti presso due collezionisti milanesi.
Tra le ferite che ancora sanguinano ci sono le nove tele mitologiche di Sebastiano Ricci che formavano un soffitto di nove metri in Palazzo Mocenigo a Venezia: sono nella Gemäldegarie della capitale tedesca perché le volle Hitler e il conte Andrea di Robilant non poté negargliele, anche se erano inalienabili. Partite nel 1941 «dall’ambasciata di Berlino a Roma, in valigia diplomatica, con altre 36 casse contenenti 112 tra sculture e dipinti». E al Landsmuseum di Oldenburg, in Bassa Sassonia, rimane un mosaico romano da Palazzo Barberini di un metro per lato scavato a Palestrina nel 1676. Raffigurante il rapimento di Europa sul toro bianco in cui Giove si è tramutato, viene venduto nel 1941 tramite l’antiquario Giorgio Sangiorgi, uno dei più importanti nel continente con negozio aperto nel 1890 in Palazzo Borghese a Roma, che lo spedisce all’«architetto Reger per l’Ecc. Adolfo Hitler» a Monaco di Baviera (Hans Reger registrava dal 1938 le opere destinate al Führer e al museo di Linz). Non tornerà mai: ceduto per 150mila lire, cifra ritenuta adeguata, è partito con un regolare permesso d’esportazione.
Molto altro si potrebbe aggiungere, ma facciamola breve: non sono stati recuperati svariati tra gli argenti antichi collezionati da Alessandro Basevi, ebreo triestino trapiantato a Genova, dove prima della guerra aveva un’acciaieria. Dopo l’8 settembre li mura nei sotterranei della villa, sotto la legnaia, ma una spia lo tradisce. Riappaiono a Verona, diretti al Brennero, nell’aprile del 1945. Gli americani li consegnano all’Arar, Azienda per il rilievo e l’alienazione dei residuati, che li mette all’asta. Basevi non ne sa nulla; vede un suo «pezzo» da un antiquario: indaga e ricostruisce quanto è accaduto. Riesce a ricomperarsi, da vari venditori che l’avevano acquisita in asta, una parte della sua ex collezione; ma molto è andato purtroppo disperso. La figlia Enrica l’ha raccontato in un libro.
E, per finire, la biblioteca scomparsa a Roma. Il 14 ottobre 1943, due giorni prima della terribile retata di oltre mille ebrei nel Ghetto di Roma, due ufficiali del «Gruppo Rosenberg» confiscano le due biblioteche del Ghetto, quella del Collegio Rabbinico e quella della Comunità romana. La prima è stata ritrovata nel 1948: 6.580 volumi in 46 casse e 1.760 opuscoli in altre otto. Ma della seconda neppure uno spillo. «Era la più importante in Italia e tra le maggiori in Europa», spiega Alessandra Di Castro: 8mila volumi, 28 incunaboli, 183 cinquecentine alcune delle quali edite a Venezia da Daniel Bomberg (tra cui una prima edizione del Talmud in otto volumi), Alvise Bragadin e Marcantonio Giustinian. Testi del Cinquecento da Costantinopoli, Salonicco, Cracovia e Lublino; e del Sette e Ottocento da Venezia e Livorno. Secondo uno studioso, raccoglieva un quarto di ciò che avevano stampato i famosi Soncino nell’omonima città in provincia di Cremona. Con trattati di Avicenna, commenti ad Averroè del Trecento e libri introvabili altrove. Purtroppo, manca perfino l’inventario di questo tesoro sparito: ce n’è soltanto uno di 120 tomi del 1934. E restano una dozzina di libri che non erano al loro posto e quindi non sono stati presi. Così, conosciamo almeno il timbro che era su ogni frontespizio. Non si sa mai: potrebbe sempre servire.
L'ARTE BOTTINO DEI NAZISTI
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3. Dai Klimt ai Gurlitt
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