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La ceramica prima, da allievo (com’era stato all’Istituto d’Arte di Roma) del grande Leoncillo, poi il vetro, ma anche la terra e perfino il ghiaccio: tutte materie primarie, sulle quali però, sin dal 1958 quando, ventenne, Mario Ceroli vinse il Premio per la giovane scultura della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, ebbe la meglio il legno, il definitivo protagonista del suo lavoro.
Non però (come si è spesso ripetuto, a causa dell’aspetto volutamente grezzo dei suoi lavori) il legno delle casse d’imballaggio bensì tavole di legno di pino di Russia lasciate nude. Un’arte «povera» sin dall’esordio, la sua, che lo avrebbe portato a esporre nelle mostre fondative, nel 1967 e 1968, del movimento creato da Germano Celant, quando già aveva alle spalle opere come «Cassa Sistina», il piccolo ambiente abitato da sagome di legno che, esposto alla Biennale di Venezia del 1966, gli aveva guadagnato il Premio Gollin.
Sedici sue importanti opere degli anni ’70 e ’80 sono esposte da Cardi Gallery (in Corso di Porta Nuova 38, dal 20 febbraio al 6 aprile) nella mostra intitolata «La meraviglia»: stupefacenti, infatti, per le dimensioni monumentali e per la forza che emanano, sono le otto sculture di pino di Russia della serie «Discorsi platonici sulla geometria» (1985-1990) che abitano il piano terreno della galleria, e stupefacenti per la sperimentalità nell’uso dei materiali sono le otto opere a parete (avviate alla fine degli anni ’70) esposte al piano superiore.
Le prime, ispirate al mito greco di Atlante, il titano punito da Zeus per aver partecipato all’assalto agli dèi dell’Olimpo e condannato a portare il mondo sulle spalle, guardano al modello celeberrimo dell’«Atlante Farnese» (II secolo d.C., oggi al Mann di Napoli), ma portano faticosamente sulle spalle non il globo bensì dei solidi geometrici di ascendenza platonica, tanto pesanti da farli piegare, talora, sulle ginocchia. E i loro corpi, realizzati accostando moduli di legno modellati in modo da formare non solo le masse muscolari tese nello sforzo ma anche le ciocche dei capelli scompigliati, danno vita a un piccolo popolo di figure agitate e sofferenti, condannate a un eterno supplizio.
Al piano superiore entrano in gioco le opere a parete, in cui Ceroli (Castel Frentano, Chieti, 1938) innesta sulle tavole di legno arbusti, ramoscelli, paglia, legni carbonizzati, regalando loro una ruvida, rustica tridimensionalità. Con guizzi d’ironia, come quando, citando il mito di Saturno-Crono che divora i figli poiché teme di essere da loro spodestato, con una sorta di sineddoche visiva riassume la figura della divinità nella sola grande «barba» fatta di ispidi rami.

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