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Sophie Seydoux
Leggi i suoi articoliLa fotografia di Rosalind Solomon è sempre stata un esercizio di ascolto, di prossimità e di coraggio. Scomparsa nel giugno 2025 a 95 anni, l’artista americana lascia un’opera che attraversa più di mezzo secolo di storia, geografie e umanità, un corpus di immagini che interrogano la dignità e la vulnerabilità, la vita quotidiana e il dolore, la fede e la solitudine. Nata nel 1930 a Highland Park, Illinois, Solomon non appartiene alla categoria dei talenti precoci. Si laureò in Scienze Politiche al Goucher College nel 1951, si sposò, ebbe due figli e condusse per anni una vita apparentemente ordinaria nel Tennessee. La fotografia arrivò tardi, quasi per caso, come gesto di curiosità e di necessità. Nel 1968, durante un soggiorno in Giappone per il programma Experiment in International Living, scoprì nella macchina fotografica un modo per comunicare con chi non condivideva la sua lingua. Da quel momento, la fotografia divenne il suo modo di comprendere il mondo. Solomon ha costruito un linguaggio dove la fotografia non è mai mero documento, ma strumento di conoscenza e di compassione. La sua opera dimostra che guardare l’altro significa, in ultima istanza, guardare sé stessi. In tempi in cui l’immagine rischia di diventare consumo, il suo lavoro resta una lezione di profondità: vedere non basta, bisogna imparare ad ascoltare.
Negli anni Settanta, grazie agli incontri a New York con Lisette Model, maestra anche di Diane Arbus, Solomon trovò una direzione: osservare l’altro senza filtri, con rispetto ma senza timore del dolore o della deformità. Le sue prime serie realizzate nel Sud degli Stati Uniti – in ospedali, comunità religiose, cerimonie – mostrano una sensibilità radicale per la fragilità umana. Le immagini sono crude, ma mai crudeli; empatiche, ma non sentimentali. A differenza di molte fotografe della sua generazione, Solomon ha sempre rifiutato l’etichetta del reportage sociale in senso stretto. Il suo lavoro è documentario solo in apparenza: in realtà è una continua esplorazione delle relazioni, del corpo, della spiritualità e della paura. In Liberty Theater (1989), ad esempio, affronta le tensioni razziali del Sud americano con un linguaggio che unisce la denuncia alla poesia visiva. In Portraits in the Time of AIDS, negli anni Ottanta, restituisce volti e corpi segnati dalla malattia, ma anche una struggente testimonianza di affetto, dignità e resistenza. Con il passare del tempo, la sua pratica si è fatta più intima e autobiografica. In Chapalingas (2003), raccolta di fotografie scattate in più di dieci Paesi, il viaggio diventa una metafora dell’identità: ogni volto incontrato sembra riflettere una parte della fotografa stessa. L’ultimo lavoro, A Woman I Once Knew (2024), è un autoritratto in forma di confessione, un libro sul corpo che invecchia e sullo sguardo che continua a cercare significato anche nella perdita. La cifra stilistica di Rosalind Fox Solomon è immediatamente riconoscibile: il bianco e nero netto, la costruzione frontale del ritratto, l’attenzione ossessiva ai dettagli – mani, cicatrici, abiti, oggetti – che diventano metafore visive della memoria e del tempo. Ma ciò che distingue il suo lavoro è la relazione tra fotografa e soggetto. Solomon non osserva da lontano: partecipa, si coinvolge, costruisce un legame. Ogni scatto nasce da un incontro, da una reciprocità di sguardi.
Negli anni ha viaggiato in America Latina, India, Sudafrica, Polonia, Israele. Ovunque ha cercato la stessa cosa: la verità che abita nei margini. Le sue fotografie rivelano un umanesimo profondo, non privo di dolore ma capace di compassione. In un’epoca dominata dall’immagine rapida e spettacolare, Solomon ha insistito sulla lentezza, sulla necessità di fermarsi a guardare davvero. Riconosciuta tardi dal sistema dell’arte, ha ricevuto premi prestigiosi come la Guggenheim Fellowship e il Lifetime Achievement Award dell’International Center of Photography. Le sue opere sono conservate nei più importanti musei del mondo – dal MoMA di New York al Victoria and Albert Museum di Londra – e il suo archivio è oggi custodito al Center for Creative Photography dell’Università dell’Arizona.
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