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Il «Ritratto di Edmond de Belamy». © 2019 Christie's Images Ltd

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Il «Ritratto di Edmond de Belamy». © 2019 Christie's Images Ltd

L’insostituibile «moralità» delle gallerie

Non è che le gallerie delle quali abbiamo da anni intonato il de profundis, in realtà abbiano ancora una funzione?

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Franco Fanelli

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Preso per sfinimento più che per fame, o forse per gola, o per vanità in un momento in cui hai l’autostima più bassa del Pil italiano, hai ceduto ed eccoti a cena con quel simpatico signore, quarant’anni ben portati, che vedi spesso alla fiere o ai vernissage. Lo hai tenuto a bada sino a stasera, perché al secondo vernissage in cui ti ha cuzzato, presto si era rivelato per quello che fa: ambiziose e a volte tecnologiche installazioni evidentemente ancora in attesa di decollo.

All’esoso ristorantino (come ha fatto a sapere che ti piace il baccalà mantecato?) paga il conto. Eppure ti eri opposto, ben sapendo che l’inchiostro per la sua firma sulla ricevuta della carta di credito è la tua condanna a mesi di persecuzione. Dixit Francesco Bonami che in Italia un invito a cena è un patto di sangue. Pensi a lui mentre l’amicone ti accompagna a casa in auto previa deviazione nel suo studio.

È lì, di fronte a quell’immane giacenza di sfrenate ambizioni (una certa agiatezza familiare gli consente di dilapidare capitali in materiali, dispositivi digitali ed evidentemente in cene e varie pr che costituiscono e condiscono quelle «cose») che parte l’inesorabile domanda: ha bisogno di una galleria. Il diaframma che separa cose apparentemente analoghe, le une «ammesse» sui banchi del mercato ufficiale dell’arte e le altre vittime di feroci respingimenti, è tanto sottile quanto tenacemente elastico. Basta pochissimo per finire da quella o da questa parte.

Non è facile cogliere quel «pochissimo», ma evidentemente non si tratta solo di salotti e di pr come sostengono gli invidiosi. Pensi a questo mentre scarichi in casa tua qualche chilo di cataloghi cartonati, in brossura, rilegati, patinati, pinzati, cuciti, riciclati, a leporello, a origami, a pop-up, in cofanetto e naturalmente racchiusi in un cd pieni di tutte le cose che hai visto nello studio e che vedrai sul sito internet di chi ti ha pagato il baccalà mantecato. Va beh, pensi, non sarà difficile, quante gallerie propongono roba analoga? I tuoi dopocena trascorreranno per qualche sera nel mal di mare provocato dalla navigazione sul web, alla ricerca di autori consimili e dei loro curricula, per scovare la galleria giusta.

E t’imbatti in una schiera di tipi come lui, che vantano mostre in sedi pubbliche comunali, provinciali, regionali, polisportive, residenze reali, parchi giochi, accademie, ex ospedali psichiatrici, parchi storici, bar e ristoranti di tendenza, tisanerie, antichi monasteri, abbazie sconsacrate e parrocchie abbandonate, caserme demilitarizzate e ospizi deospedalizzati, cappelle esorcizzate e sacrestie violate,  sinagoghe, moschee chiuse al culto da Salvini, siti archeologici, ricetti medievali, officine riconvertite, cantine deumidificate di antiche sedi Pd ecc.

Ma di gallerie private, neanche l’ombra. Qui e là la partecipazione a fiere a pagamento (a carico degli «artisti» d’ogni età, stagione e tendenza basta che paghino). Ma non uno straccio di galleria. La puzza al naso degli operatori di mercato, negli ultimi anni, ha raggiunto inaudite altitudini e nessuno vuole più rischiare la faccia, perché bastano due settimane (ancorché profumatamente «locate») per sputtanarsi agli occhi del mondo intero.

E allora sorge un dubbio: non è che le gallerie delle quali abbiamo da anni intonato il de profundis, in realtà abbiano ancora una funzione? E se fossero proprio quei rampanti bocconiani che stanno prendendo il posto di quelle romantiche figure che tanto abbiamo amato e amiamo (i Rotta, i Forni, i Mazzoli, i Sargentini, i Cannaviello, e prima di loro i Palazzoli, i Cardazzo, i Gian Ferrari ecc.) a fare, come fecero i loro predecessori, e al netto della puzza al naso (e del cinismo che ha a che fare con ogni cosa che riguardi merce e denaro), il «lavoro sporco», il drenaggio, la decisiva setacciata?

Il futuro, in tal senso, potrebbe riservare uno scenario inatteso: se l’abuso delle garanzie di vendita potrà mettere in crisi le case d’asta, se l’intelligenza artificiale potrà rendere superflui gli artisti (vedi il «Ritratto di Edmond de Belamy», mostro di Frankenstein creato da tre nerd francesi, battuto a 430mila dollari da Christie’s a New York), sta a vedere che le uniche a mantenere la propria indispensabilità saranno proprio le gallerie, non importa se reali o virtuali.

Il «Ritratto di Edmond de Belamy». © 2019 Christie's Images Ltd

Franco Fanelli, 25 gennaio 2019 | © Riproduzione riservata

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Artista, bibliotecario, insegnante privato di francese, organizzatore e geniale allestitore di mostre: il suo celebre orinatoio capovolto è stato considerato l’opera più influente del XX secolo. Usava lo sberleffo contro la seriosità delle avanguardie storiche, e intanto continuava a scandagliare temi come il corpo, l’erotismo e il ruolo dello spettatore

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