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Arabella Cifani
Leggi i suoi articoliLa panchina di Manhattan che dà il titolo al libro era collocata fra il campus della New York University e Washington Square e su di essa si sedeva a meditare Robert Rosemblum, il mitico curatore del Guggenheim Museum. L’autrice Anna Ottani Cavina l’ha conosciuto e a lungo frequentato, come ha frequentato Federico Zeri e Giuliano Briganti: di tutti e tre ricorda «tenere e minimali scaglie di vita quotidiana», viaggi, discussioni, risate, conversazioni, studi, preparazioni di grandi mostre in un’epoca meno convulsa della nostra.
Anna Ottani, alla quale l’Italia deve, fra le tante cose, la creazione e la prima direzione della Fondazione Zeri di Bologna, ci ha precisato che i testi che lo compongono riflettono alcune scelte che hanno orientato i suoi studi, ma sono anche il frutto una critica d’arte più immediatamente reattiva. Nel libro sono radunati scritti usciti sulle pagine de «La Repubblica», «Il Venerdì di Repubblica», «Il Sole 24 Ore», «Il Nouvel Observateur», «il Giornale dell’Arte». L'autrice li ha raccolti affinché non si disperdessero e in questo suo impegno è stata affiancata in modo esemplare dalla casa editrice per la quale riserva espressioni di particolare gratitudine. Il libro infatti sul piano editoriale è un raffinato capolavoro: carta, caratteri immagini lo rendono scorrevole e piacevole fin dal primo impatto tattile. Un volume che si può leggere partendo dal fondo, o a mezzo, con articoli che la Cavina ricorda nostalgicamente come scritti in piena libertà di pensiero, senza che alcun direttore mai le abbia imposto nulla.
Molta parte è dedicata a commenti su grandi mostre del passato, quelle che cambiavano veramente la storia dell’arte. Mostre rivelatrici, come quella di «Matisse e i tessili d’Oriente» dove si coglieva per la prima volta il rapporto strettissimo che il pittore aveva intrecciato con i tessuti orientali e i loro arabeschi. Era il tempo delle mostre da non perdere, un tema oggi in gran parte superato dalla strabordante offerta digitale di immagini.
Secondo l’autrice i musei di concetto napoleonico sono finiti, come finita è l’idea del museo quale catena della storia; l’idea stessa dei contesti storici sta cambiando: Anna Ottani non sa come sarà il futuro dell’arte, delle mostre, della fruizione dei beni culturali, ma di una cosa è certa, che sarà molto diverso da come è oggi concepito.
Nel libro si affrontano anche temi di arte che sono stati nel cuore della storica. Ci ricorda Anna Ottani che non c’è una storia dell’arte solo italiana anche se il nostro Paese resta centrale negli studi. Dal Settecento l’arte si è «meticciata», altre nazioni si sono affacciate con scuole pittoriche come quella tedesca, danese, svedese, che emergono con opere ancora poco conosciute ma di grande livello. E poi ci sono i pittori americani dell’Ottocento e del Novecento, con la progressiva emancipazione della loro cultura nei confronti della madre Europa.
Infine un ricordo per i grandi storici dell’arte con cui ha condiviso pezzi importanti di vita fra i quali spicca Federico Zeri, con cui l’autrice fece lunghi viaggi in Oriente. Uno Zeri stanco e provato, indignato contro l’italica maleducazione e che raccoglieva lattine e cartacce fra i sepolcri della via Appia già nel 1974. Ma anche uno Zeri tenerissimo che davanti alla superstite lapide di un fanciullo che custodiva a Mentana considerava che i secoli distruttori avevano abbattuto i più grandi monumenti per lasciare intatto quello scampolo di marmo su cui una madre desolata aveva scritto la propria disperazione.

Anna Ottani Cavina con Federico Zeri
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