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«Ritratto di Gabriel de la Cueva» (1560), di Giovan Battista Moroni (particolare). © Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie/Christoph Schmidt

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«Ritratto di Gabriel de la Cueva» (1560), di Giovan Battista Moroni (particolare). © Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie/Christoph Schmidt

Nero il ritratto è più bello (e più difficile da dipingere)

Dopo le mostre di Londra nel 2014 e New York nel 2019, Simone Facchinetti e Arturo Galansino curano una rilettura del pittore bergamasco Moroni: un centinaio di opere anche dei suoi maestri e dei contemporanei «veneziani»

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Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Sono trascorsi 45 anni da quando Mina Gregori dedicava a Giovan Battista Moroni (Albino, 1521-80) una mostra monografica. Oggi sono Simone Facchinetti (Università del Salento, autore di Giovan Battista Moroni. Opera completa, Officina Libraria, 2021) e Arturo Galansino (direttore generale Palazzo Strozzi) a rileggere l’opera di Moroni, ampliando però lo sguardo ai suoi maestri, reali e ideali (il Moretto e Lorenzo Lotto) e a chi operava negli stessi anni a Venezia e nei territori di terraferma della Serenissima, da Savoldo a Tiziano, a Veronese, a Tintoretto.

Circa 100 le opere esposte nella mostra «Moroni (1521-1580). Il ritratto del suo tempo», presentata dalle Gallerie d’Italia Milano dal 6 dicembre 2023 all’1 aprile 2024: in gran parte dipinti (soprattutto ritratti) ma anche libri, oreficerie, medaglie, armature, stoffe, che rendono tangibili alcuni aspetti tutt’altro che secondari di opere pittoriche che si proponevano di restituire le figure, i loro abiti, i segni del loro potere nel modo più fedele possibile: «al naturale», come si diceva dei ritratti dei pittori della Terraferma, nei quali (ma in Moroni specialmente) Roberto Longhi avrebbe individuato i predecessori di Caravaggio.

Forti del successo delle loro due mostre «moroniane» precedenti (alla Royal Academy di Londra nel 2014 e alla Frick Collection di New York nel 2019), i curatori articolano la nuova rassegna in nove sezioni: si parte dal maestro, il bresciano Alessandro Bonvicino detto «il Moretto», lodato da Vasari, nella cui bottega Moroni si forma dagli anni ’40 del Cinquecento, raccogliendo in un taccuino, qui ricostruito, appunti visivi che lo accompagneranno a lungo. Non meno importante per lui è Lorenzo Lotto, com’è provato dalle loro due «Trinità» poste a confronto, oltre che da alcuni ritratti dei due maestri accostati a quelli di Moroni: sarà proprio in questo genere che Moroni si specializzerà, in un’area geografica (quella «veneziana») e in un secolo, il Cinquecento, in cui il ritratto conosce una fortuna ineguagliata.

Alla metà del secolo Moroni è nella Trento del Concilio a ritrarre, in veri «State Portrait», i membri della famiglia Madruzzo e altre personalità, per tornare poi nella sua Albino, dove ritrae i potenti locali in ritratti d’apparato sì, ma veritieri, qui affiancati da armature, libri ed esempi di arti suntuarie, mentre dipinge anche ritratti i cui soggetti (presto anche borghesi) sono resi in modo più confidenziale, senza lusinghe. Le pale d’altare ma anche i devoti in preghiera (è tempo di Controriforma!) offrono lo spunto per un nuovo confronto tra Moretto, Lotto e Moroni.

In chiusura, un tema suggerito dal suo dipinto più noto, «Il sarto», nel quale l’uomo è colto mentre taglia un drappo nero, il colore «etico» per eccellenza nel ’500 (ma anche difficile da dipingere, in cui Moroni invece eccelleva): un pretesto per riunire suoi ritratti in nero e «Il libro del sarto», una raccolta miscellanea del ’500 di figurini di abiti e costumi, da cui le vesti di questi personaggi paiono uscire.

«Ritratto di Gabriel de la Cueva» (1560), di Giovan Battista Moroni (particolare). © Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie/Christoph Schmidt

Ada Masoero, 04 dicembre 2023 | © Riproduzione riservata

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