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Parola d'ordine: ricentralizzazione

Melanie Gerlis

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Anche se negli ultimi dieci anni le gallerie internazionali hanno fatto la corte ai collezionisti di Paesi lontani, aprendo in particolare nuovi spazi in Asia, ora la tendenza sta cambiando, con una concentrazione del mercato nei suoi centri tradizionali: Londra e New York.

La White Cube di Londra sta cercando un ufficio a New York per «offrire un servizio alla sua clientela internazionale». Peter Brandt, ex codirettore dello spazio di San Paolo della White Cube fino alla sua chiusura in agosto, potrebbe passare più tempo a Manhattan in futuro.

Il mercante di Parigi e Salisburgo Thaddaeus Ropac è in cerca di una sede a Londra, dopo aver preso in considerazione Istanbul. Anche Liza Essers della Goodman Gallery, con sede a Città del Capo e Johannesburg, vuole aprire a Londra.
La londinese Lisson Gallery aprirà invece il prossimo anno un grande spazio a New York, mentre Hauser & Wirth ha intenzione di spostarsi in un edificio di cinque piani a New York nel 2018.

«Una decina di anni fa le gallerie volevano partire alla conquista del mondo, ma poi si sono rese conto che i costi non erano solo finanziari», spiega il gallerista di New York Sundaram Tagore, che sta investendo in uno spazio più grande nella sua città e ne sta cercando uno anche a Londra. Pur avendo sedi anche a Hong Kong e Singapore, afferma che non è necessario «avere più gallerie. La globalizzazione ha reso più semplice per i collezionisti andare a Londra o New York, terreno tradizionale del mondo dell’arte, e molti dei principali collezionisti hanno già case in queste città». ù

La «ricentralizzzazione» è in parte un segno del fragile momento economico e politico. In Italia l’Iva al 22% e il «redditometro» introdotto dal governo Monti, un provvedimento che monitora gli acquisti e il tenore di vita, inclusi quelli dei collezionisti d’arte contemporanea, con un ulteriore indebolimento di un mercato già in difficoltà, hanno spinto alcuni galleristi ad aprire nuove filiali: a Londra, Matteo Lampertico questo mese ha raggiunto Massimo De Carlo, Ronchini, Repetto, Robilant + Voena e Mazzoleni.

Liza Essers, invece, sottolinea il collasso della valuta sudafricana, il rand, che a settembre ha raggiunto il minimo storico contro il dollaro statunitense: «Immaginate i costi aggiuntivi di una fiera internazionale, senza parlare del problema della valutazione degli artisti». Avere una galleria a Londra e New York può significare una maggiore competitività (e costi di affitto più elevati) ma è anche diventato necessario per evitare che gli artisti trovino altri rappresentanti.

Il parigino Emmanuel Perrotin afferma di aver aperto a New York nel 2013 in parte per non perdere i suoi artisti, una scelta che si è rivelata positiva.

Melanie Gerlis, 20 novembre 2015 | © Riproduzione riservata

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