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«Cow Parade», di Pascal Knapp

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«Cow Parade», di Pascal Knapp

Pas de deux | Le mucche che pascono tristi

Viaggi inconsueti dentro, sotto e di lato alla storia dell’arte attraverso i bovini, intrapresi da Arabella Cifani e Stefano Causa

Arabella Cifani, Stefano Causa

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L’arte di scoprire

Chi ha detto che un autore non si giudica mai dalla copertina o dal titolo? Al contrario. Da lì si comincia e, talvolta, si finisce anche. L’abito fa il monaco: sempre. Ed è al monaco, anzi, che spetta dare giustezza e legittimazione all’abito. Nell’attimo di inaugurare una rubrica basata, come vorremmo sempre, sullo scambio fitto fitto e che, perciò, avremmo desiderato chiamare «il dialogo in corpo», mettiamo le mani avanti. Qui non si tratterà di scoperte di opere e documenti a sostegno; né di libri o mostre. Parleremo di cover (e titoli). Libri, dischi, saggi, manuali, cataloghi, album di figurine, pubblicità e packaging vari. Tutti da avvicinare esercitando la pratica di scartocciare un regalo, trarlo dalla confezione che è, per chi lo abbia dimenticato, arte difficile che s’impara e che, nel transito al digitale, con la progressiva e, pare, irrimediabile scomparsa dei formati, abbiamo tutti disimparato.
 

L’asta dei titoli

L’arte di scoprire una copertina. Di saggiare la lunghezza e la consistenza di un viaggio partendo dal titolo. L’arte di cogliere un documento musicale, letterario o figurativo, in flagranza di reato. Sguainarlo, snudarlo e snidarlo. Come Apollo trasse Marsia dalla vagina delle membra sue.  Perché le copertine (come i titoli) non sono mai innocenti; ma il primo test d’ingresso a quanto verrà dopo: nel testo o tra i solchi del vinile. Una lettura critica: non la sola autorizzata ma, indiscutibilmente, la prima. I Malavoglia. Malombra. Oro incenso e birra. Il rosso e il nero. La vie en rose. Ho visto anche zingari felici. Una vita da mediano. La solitudine dei numeri primi. L’amica geniale. Cent’anni di solitudine. La solitudine del satiro. Harry Potter e la camera dei segreti. L’insostenibile leggerezza dell’essere. Dark side of the moon. Rubber soul. Il diavolo in corpo. La ronda di Notte. La colazione sull’erba. La madre dal cuore atomico. Officina Ferrarese. La pecora di Giotto. Fatti di Masolino e Masaccio. Il Gattopardo. E mille altri di quelle croci stazionali dove il titolo, come si diceva un tempo, è tutto un programma. [Stefano Causa]

«Le mucche che pascono tristi»

Viaggi inconsueti dentro, sotto e di lato alla storia dell’arte attraverso le mucche

Avevano ragione i futuristi 112 anni fa, quando consigliavano di buttare a mare Ritrattisti, Internisti, Laghettisti, e Montagnisti. Avevano ragione a definirli «impotenti pittori da villeggiatura». Ci vorrebbe oggi qualcuno con la loro forza che possa con un ruggito dare una scossa all’arte contemporanea. Ma non c’è.
I futuristi ce l’avevano con le frusaglie che all’inizio del Novecento dilagavano in molte mostricine compiacenti dove però, esattamente come oggi, si vendeva e si facevano affari e dove il collezionista tornava a casa soddisfatto con il suo paesaggio di montagna realistico, tale e quale a quello che si poteva ammirare a Gressoney durante la villeggiatura estiva, esclamando: «E guardate le mucche, sembrano proprio vere, gli manca solo la parola».
Ecco, le mucche. Le mucche nei quadri: ma quante ce ne sono?

Non siamo certo qui per esporre un trattato di muccologia nell’arte. Ma, partendo dalla placida vacca della copertina del disco dei Pink Floyd le considerazioni da fare su tema sono molteplici. Innanzitutto le mucche sono beffarde e menefreghiste: quella della copertina del disco, chiaramente, entro breve, rilascerà una grossa cacca vaporosa sul prato (la produzione media è di 30 chili al giorno) e oltretutto non si smuoverà di lì, se il posto le garba, è infatti molto più facile spostare un armadio da sacrestia del Seicento, di quercia, alto 5 metri che una mucca. E poi c’è il mitico formaggino francese della «Vache qui rit» che ogni volta che andavo in Francia da piccola mi veniva dato come premio. E non mi piaceva, come non amo i quadri con bovini. Eppure l’immagine della mucca ridente è veramente efficace dal punto di vista del marketing, soprattutto per ingolosire i bambini, e c’è chi ha dipinto dei quadri veramente belli con le mucche.

I più bravi sono stati gli olandesi del secolo d’oro e nessun altro mucchettista può paragonarsi a loro. Non c’è partita. D’altronde l’Olanda è una sorta di grande pascolo e quando fuori dalle città cammini lungo un’autostrada e sei sotto il livello del mare le mucche te le vedi al primo piano in alto e se anche non le vuoi guardare (che fanno impressione appese a quell’altezza), l’odore si sente, eccome. È evidente che i pittori olandesi le mucche le amavano, le veneravano, le studiavano in tutti i loro movimenti, le dipingevano e le disegnavano con infinita perizia, in piedi e sdraiate da sole o in gruppo: una fonte di continua meraviglia, altro che le Veneri italiane. Noi nel Seicento dipingevamo scene sacre, storiche, mitologiche, paesaggi classicheggianti con rovine, tutte cose non realistiche: in Olanda invece le mucche erano nel pensiero dei pittori, che le tenevano in sala, assise in poltrona.

I più bravi furono certamente Dirck Govaerts, Cornelis Saftleven, Pieter Bout, Claesz Pietersz Berchem; ma il migliore fu Paulus Potter che forse con le mucche ci dormiva abbracciato, considerati i risultati. Ma solo Rembrandt nel bue squartato del Louvre e nell’incisione del paesaggio con la mucca che beve (una mucca lieve come un apostrofo) riuscirà a dare un’altra dimensione al tema. Nei Paesi Bassi si passa da mucche seicentesche, con echi caravaggeschi, chiaroscurate contro cieli intensi e carichi di nuvoloni a mucche rococò chiare ed eleganti che sono delle sorte di Madame de Pompadour al pascolo.

L’Ottocento continua il genere e, da non credere, perfino Piet Mondrian agli esordi dipinge delle mucche al pascolo o nella stalla (Art Gallery of Ontario). Anche i francesi ci hanno dato dentro con le mucche e, ovviamente, gli inglesi, ma sia i «Paysage avec Vaches» che i «Landscape with Cows» fanno in generale morire di noia (salviamo però Chagall con le sue lunari mucche volanti). Il tema poi si divide in rivoli che concimano Svizzera, Stati Uniti, Russia, e fertilizzano in sostanza tutti i Paesi europei. Il risultato non cambia. La Spagna si salva un po’ di più con i bovini indiavolati di Picasso e l’Italia, che di dimenticabili mucche al pascolo ne ha prodotte migliaia, ha delle punte di eccellenza e poesia in Segantini in qualche macchiaiolo in qualche tela dei Palizzi, per il resto meglio mandare al pascolo anche i pittori.

L’arte moderna ha rivalutato le mucche e ha ridato loro nuova vita. Per la prima volta le mucche sono diventate divertenti. Ha dato il via alla baraonda bovina Andy Warhol, con uno sberleffo, tingendole di rosa nel 1966 e, nel 1998, lo scultore Pascal Knapp ha inventato le «Cow Parade», con mucche a grandezza naturale in fibra di vetro: mucche che hanno poi girato il mondo riempiendo con la loro allegria irriverente piazze e strade di grandi e piccole città (sono finite perfino in Lettonia), facendo venire voglia di mettersene una in giardino, magari a fiori. Damien Hirst ha accoppato varie vacche, rigorosamente di razza frisona, esponendole, intere, sezionate o decapitate, con molte polemiche, in teche piene di formaldeide, e devo ancora capire chi ha comprato questi orrori, forse le industrie degli hamburgher.

Qualche artista vivente ha il fegato di dipingerle, olio su tela, ancora oggi, e ci va una certa faccia tosta per farlo. Mucche beffarde, sempre, tanto da dare origine a poesie orrende come quella del «pio bove»  che ci auguriamo di non dovere mai più studiare, o satiriche come quella, che fu giustamente famosa, scritta in stile pseudoermetico da Franco Monetti, dedicata ai suoi docenti universitari  la cui prima strofa esordiva con «Le mucche che pascono tristi, pensando al lor bove sperduto e riguardan gli stanchi turisti dal volto e dal naso camuso»: una perfetta descrizione di un quadro di mucche al pascolo sul quale fare una pernacchia. Povere mucche, produttrici di tonnellate di gas metano, inquinatrici; ma anche placide popolatrici di quadri e gentili fornitrici di quel latte che, come dimostrava Camporesi nel suo libro sulle Le vie del Latte (Garzanti, Milano 1993) fu anche carburante di popoli guerrieri, prima nomadi e poi stanziali, in un intreccio fra latte, mucche e guerra cui raramente si pensa.

Partendo dalla grande vacca lattifera dalle mammelle penzolanti della cover  del disco dei Pink Floyd si possono dunque fare molti viaggi, dentro e di lato e sotto alla grande storia dell’arte, a quella dell’umanità e dei suoi rapporti con gli animali.  Sempre che si sappia bene capire quale sia la grande o la piccola storia di cose, persone, mucche e dischi.
[Arabella Cifani]
 

Copertine da ascoltare

Certo, per chi abbia imparato ad ascoltare i dischi dalle copertine e, da lì, finendo per agguantare qualcosa del mestiere della storia dell’arte, non ce ne sarebbe bisogno; pure una legittimazione, specie di fonte autorevole, non si rifiuta a nessuno. Così siamo andati a riprendere un estratto di un’intervista del 1993 che Federico Zeri, amico della prima ora di «Il Giornale dell’Arte», rilasciò ad Alessandro Morandotti. Sono parole, come d’abitudine, ondivaghe ma non divaganti (non foss’altro perché, praticamente, le ultime pubbliche di quel conoscitore e scrittore militante). E a un certo punto salta a dire: «gli storici d’arte dovrebbero ridare dignità a documenti figurativi di grande interesse storico come gli ex voto o, parlando dell’arte del XX secolo, qualsiasi analisi sensata non dovrebbe prescindere da documenti interessantissimi come le affiche pubblicitarie o le copertine dei dischi». Eccoci al punto. E allora, col beneplacito di Zeri, da dove partire? Ma dalla mucca naturalmente. Una signora mucca che, da sola in un prato, ci mostra la parte migliore. La madre dal cuore atomico che gli inglesissimi Pink Floyd calibrarono sulla copertina del loro quinto album licenziato nell’autunno calante del 1970.

I cani in chiesa, la mucca in casa

Cinquantatré anni fa entravi in un negozietto, che so, di Soho e chiedevi l’ultimo dei «Floyd». Quello che avevi già adocchiato in vetrina senza realizzare. Ti aspettavi i visi dei quattro componenti del gruppo come, da più di un lustro, avevano abituato, con maggiori o minori effetti fotografici, «Beatles», «Rolling Stones», «Small Faces», «Kinks» o «Who» (o, oltreoceano, i «Beach Boys», i «Doors» o Frank Zappa). E, invece, ti arrivava la mucca. Lady Cow. La Mucca numero uno. La Mucca per antonomasia. Madre e madrina di tutte le mucche dell’ultimo mezzo secolo che, incellofanata, ti accompagnava in formato 33 giri. Che cosa avrà escogitato il commesso (uno come quello di Alta fedeltà di Nick Hornby) per giustificare l’arrivo, sia pure per effigie, di una vacca lattifera?

Metafisica e antimetafisica della mucca. Dai Pink Floyd a «Viva Maddalena»

Difficile pretendere fosse in grado di illustrare, su due piedi, l’escogitazione di uno come Storm Elvin Thorgerson che, nello spazio di una copertina, s’inserisce pressoché da solo nella filiera della grande metafisica: da de Chirico al fratello Savinio, da Magritte a Fabrizio Clerici. Le immagini sono tanto più spiazzanti quanto più banali e nitide. Quanto più non rimandino ad altro che a sé stesse. Perciò quella dei Floyd non è una mucca da decorazione, da sottofondo, una mucca ornamentale come se ne vedono, placide, nei dipinti seicenteschi di Potter o in certi sfondi di Giovanni Bellini. Da comparsa, la mucca diventa protagonista. E la scena la tiene bene appunto perché sola. Un’immagine di tale irrefutabile evidenza da diventare insostenibile. Se è difficile da guardare, figurarsi da emulare. Chi ci ha provato, come il Sergio Endrigo di «Viva Maddalena», ha pigiato sul tasto della reinvenzione parodistica. Com’è andata?
[Stefano Causa]
 

© Riproduzione riservata

Arabella Cifani, Stefano Causa, 11 agosto 2023 | © Riproduzione riservata

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