Francesco Tiradritti
Leggi i suoi articoliDa qualche settimana Netflix sta promovendo «Regina Cleopatra», un «TV drama» definito anche «documentario storico» e «docuserie». Malgrado il primo episodio non sia ancora stato trasmesso (sarà disponibile sul sito a partire dal 10 maggio), il polverone mediatico sollevato è enorme. L’oggetto del contendere è il colore della pelle di Cleopatra, interpretata dall’attrice britannica Adele James.
Gli egiziani, con l’ex ministro delle antichità Zahi Hawass in testa, si sono risentiti nel vedere interpretare la loro più famosa regina da un’afro-britannica. Un identico disappunto lo avevano espresso quando si era parlato di un film in cui per il medesimo ruolo era stato fatto il nome all’israeliana Gal Gadot. Se in quest’ultimo caso le proteste derivavano dalla mai sopita ostilità che i Paesi mediorientali di religione mussulmana provano nei confronti dello Stato ebraico, per la serie Netflix i presupposti sono soprattutto quelli di una mancanza di aderenza ai fatti storici. E su questo gli egiziani hanno ragione da vendere.
Non esiste infatti la benché minima possibilità che Cleopatra fosse nera. Figlia di Tolomeo XII Aulete, aveva un pedigree macedone con, forse, qualche commistione nordafricana. La madre e la nonna paterna sono sconosciute, ma affermare che fossero di origine africana è un’ipotesi priva di qualsiasi fondamento. Stando così le cose, è possibile che la donna che fece girare la testa a mezza Roma abbia avuto la pelle olivastra, ma niente di più.
Se nella serie di Netflix è diventata nera, la ragione è molto semplice: la produttrice è Jada Pinkett che ha commentato la scelta affermando: «Non vediamo o ascoltiamo spesso storie sulle regine nere, ed è davvero importante per me, così come per mia figlia e per la mia comunità conoscerle perché ce ne sono tantissime!». Da questo si evince che nessuno le abbia detto che Cleopatra non può essere annoverata tra le regine nere.
La cultura faraonica, anche se sviluppatasi nell’estremità nord-orientale del Continente africano, non ha nulla a che vedere con le popolazioni subsahariane. Invece, contro ogni evidenza storica è diventata fonte di ispirazione per gli afroamericani che la considerano il punto di partenza della loro diaspora. Si tratta di una lettura della storia erronea e forzata assimilabile all’atteggiamento di quanti pretendono di essere egizi reincarnati.
Durante la propria carriera un egittologo è condannato a incontrare un certo numero di Nefertiti, Nefertari, Ramesse II, Akhenaton e di Cleopatra appunto, mai contadini oppure uno degli scalpellini che tagliarono le pietre della Grande Piramide. Allo stesso modo gli odierni afroamericani fanno risalire le proprie origini ai faraoni nubiani della XXV dinastia e assurgono a divinità tutelare Iside dimenticando che discendono piuttosto dalle popolazioni dell’Africa occidentale.
La vastità di un territorio impervio e selvaggio ha costituito fino in epoca recente un reale ostacolo ed è impossibile anche soltanto ipotizzare che l’occidente e l’oriente del Continente africano siano entrati in contatto in epoca faraonica. Dipingere Cleopatra di nero non corrisponde perciò a riscoprire le proprie origini africane, quanto piuttosto a rifiutare quelle reali attraverso una falsificazione fondata su un’ottusa ignoranza che, alla fine, va a detrimento dell’enorme patrimonio culturale di cui sono depositarie le popolazioni dell’Africa occidentale.
Questo atteggiamento è ben riassunto dall’affermazione di un’anziana signora quasi a chiusura del trailer che promuove la docuserie di Netflix: «Mi ricordo quello che mi diceva mia nonna: Non mi importa quello che ti dicono a scuola. Cleopatra era nera!». Ogni ulteriore commento appare superfluo.
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