Stefano Causa
Leggi i suoi articoliA quanto pare ci siamo! Dopo mesi, o anni, di falsi allarmi rispunta fuori un Caravaggio. Ma, attenzione, un Caravaggio vero. Verace. Di quelli che a vederli ti si sala il sangue e, come capita con opere e maestri davvero scardinanti, cambiano tutti i rapporti di distanza col paesaggio intorno. In questo caso, con la scena napoletana seicentesca in avvio di naturalismo. Battistello, il giovane Stanzione o anche il primo Ribera napoletano devono aver fatto i compiti su opere di questa forza.
E allora: se è vero, come scritto argutamente, che la madre del Caravaggio è sempre incinta; questa volta la figliolanza pare legittima e pure del miglior sangue! Un «Ecce Homo» a tre figure che più Caravaggio di così si muore. E che la lettura dello stile, essenziale quanto infida nei territori caravaggeschi, porta a collocare giusto a ridosso del primo soggiorno napoletano del Maestro. Siamo, insomma, alla fine del 1606 o poco più tardi. A metà strada tra le Opere di Misericordia e la «Flagellazione» di San Domenico, oggi a Capodimonte; ma, in un rapido computo a memoria, viene automatico evocare stentorei capolavori da stanza come la «Salomè», già nel Palazzo Reale di Madrid.
Ci saranno da rivedere precedenze e cronologie, vecchie e nuove attribuzioni. Intanto col fiatone e senza una scaletta precisa, nell’attesa di ritornare a bocce ferme sul tema, ne abbiamo parlato con una studiosa, anche del Caravaggio, della forza e dell’acume di Cristina Terzaghi.
Cara Cristina: ci conosciamo da quasi vent’anni e ci eravamo ripromessi mille volte che, un giorno, avremmo ragionato di un Caravaggio nuovo come si fa con una terra appena scoperta. Dunque ci siamo. E se le mascherine non ce lo impedissero, mi verrebbe voglia di abbracciarti. Quando discutemmo insieme, foto alla mano, qualche giorno fa, del quadro, avevamo deposto la prudenza e quasi gridato all’unisono: diamine, ma è Caravaggio! Nessun altro nome sembrava soddisfare la potenza impattante e la scrittura libera, corsiva e antiaccademica di quest’immagine. A Madrid, dove sei volata convocata dal Museo del Prado, mi par di capire che l’incontro ravvicinato col quadro non abbia deluso le attese. Ci racconti come sono andate le cose?
Concordo: è stata una vera emozione quella che abbiamo vissuto! A un certo punto tutto era chiaro, tutto tornava. Comunque, è successo che stavo scrivendo un articolo scientifico sul Caravaggio napoletano, e dunque volevo includere questo straordinario dipinto, ma mi sono resa conto che senza vederlo mi sarebbe stato impossibile. Anche se avevo già le foto ad alta definizione che avevo richiesto alla casa d’aste non mi bastava. Perché tu sai meglio di me che quando sei davanti a un Caravaggio si è preda del sussulto che personalmente mi capita anche quando leggo la poesia: svela in un modo inimmaginato la sostanza della realtà, e volevo capire se mi succedeva. Così ho cominciato a tentare di districarmi tra tamponi e quarantene per partire, e quando mi hanno chiesto dal Prado che cosa ne pensavo, ero praticamente già sull’aereo.
Caravaggio napoletano: dunque. Del quale abbiamo tutti una memoria fresca anche per la mostra, da te curata nel 2019, sul finale di partita del maestro. Ma, sulle prime, anche per pudore di tirare in ballo un riferimento sacro quanto abusato, erano affiorati i nomi di Battistello e, al limite, del primo Ribera napoletano… Che, a pensarci bene, è un modo implicito per svilirli: Battistello Caracciolo, nato sette anni dopo, non è il vicario del Caravaggio e neanche un quasi Caravaggio. Anzi: votato tutta la vita al disegno e all’affresco, è decisamente il più infedele dei caravaggeschi. Quanto al Ribera, ha uno stile diverso, che, come avrebbe detto un osservatore seicentesco, predilige il risalto e non il liscio. Dalle foto il nostro dipinto madrileno rivela una materia scabra, abrasiva; difficilissima da copiare. Confermi?
In effetti, parendomi un sogno Caravaggio (perché, diciamocelo, siamo i primi a mettere in dubbio che si possa ancora trovare qualcosa del Maestro), sulle prime ero stata tentata dall’ipotesi Battistello, che per me ha certamente visto il Pilato di questo «Ecce Homo», perché lo riecheggia in tante opere che tu ben conosci. Anche Ribera, seppure il Ribera della «Flagellazione» dei Girolamini non poteva stare accanto a questo quadro così sintetico nella sua straordinaria espressività. Poi ho pensato: Pilato e ancora di più lo straordinario giovane sgherro che pone il manto purpureo sulle spalle di Cristo, in un gesto che più che velarlo lo svela, non potevano che essere di Caravaggio. Avevo ancora un dubbio sulla testa di Cristo che vedevo male dall’immagine pubblicata sul catalogo d’asta. Mi sono arrivate allora le macrofotografie del dettaglio della testa, ed era dipinta nello stesso modo veloce di certe opere napoletane.
Come dici tu, a vederlo direttamente, la materia è magra, inoltre il capo di Cristo presenta delle cadute di colore, la manica di Pilato ha una materia quasi cotta, spero che un buon restauro e una campagna diagnostica rendano il dipinto ancora più leggibile. Ad ogni modo la cosa impressionante quando vedi questo quadro, è lo straordinario sovrapporsi dei tre piani in cui si muovono i protagonisti in un perfetto campo lungo, si capisce come tutti gli altri Ecce Homo che abbiamo visto risultino alla fine sostanzialmente bidimensionali, qui invece è cinema puro.
Questo dipinto era apparso a un’asta con una stima alquanto al di sotto della soglia del ridicolo: segno che nessuno si fosse accorto di nulla. Poi, come lo scatto di una pila, l’interesse si è acceso da più parti, tra telefonate e foto via WhatsApp. Si può dire che al nome ci siamo arrivati, in via indipendente, in parecchi: tra specialisti mercanti e amatori di buon occhio. Secondo te come sono mutate, nel passaggio dall’analogico al digitale, le regole d’ingaggio dei conoscitori? Io e te siamo cresciuti facendoci strada tra monografie, cataloghi d’aste, carrelli di diapositive, musei, mostre e incontri ravvicinati con le opere: non sempre possibili ma sempre auspicati. Mentre, ormai, ci sono giovani studiosi che nei musei ci vanno raramente vivendo appesi, come lemuri rampicanti, ai siti delle aste di tutto il mondo. Sono forme di sapere che stiamo perdendo? Oppure: che cosa si è guadagnato da questo approvvigionamento compulsivo e che quasi ci promuove, ipso facto, tutti a conoscitori?
I tuoi paragoni sono sempre molto coloriti! Berenson diceva: «Sa più cose chi ha più fotografie», non penso che, se potesse, aggiungerebbe: «solo quelle stampate, non quelle in digitale». Comunque, se avessi pensato di essere l’unica a credere all’autografia dell’opera non credo che sarei saltata su aereo in tempo di Covid-19. Il sapere che anche tu ci credevi, che anche gli amici antiquari che mi hanno inviato l’immagine e altri con cui ne ho parlato, pensavano che potesse essere lui, mi ha confortata nell’impresa. Se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato è che non ci si salva da soli. Io sono convinta che non si può nemmeno essere storici dell’arte da soli, perché semplicemente non si può essere se stessi da soli, si perdono troppe cose, in primis il gusto del vivere, ci si diverte di meno.
Caravaggio è, oggi, il pittore antico più famoso che esista e non basteranno fiction e docufilm su Leonardo, Raffaello o i Medici per scalzarne il primato. Per quanto, è fin troppo ovvio che la popolarità del maestro sia legata ai magazzini deteriori del biografismo. Caravaggio è un maledetto da manuale oltreché il primo indirizzo a cui rivolgersi per chi intenda fare della storia dell’arte facendo a meno della storia dell’arte. D’altronde, a pensarci bene, la caravaggiomania è un affare relativamente recente. Si può dire sia nata con la mostra longhiana di Milano del 1951 (dunque in pieno neorealismo). In quegli anni Caravaggio e i suoi erano avvicinati con la lente della stilcritica. Nel corso degli anni ’90 si è capito quanto contasse l’ausilio della diagnostica per leggere da dentro la tecnica del Maestro, che gli strumenti pur affilatissimi della connoisseurship di matrice longhiana non sembravano in grado di restituire nella sua complessità e mutevolezza.
Sulla prima questione, ti rispondo con una frase di Mina Gregori. Quando le chiesi di definire in due parole Caravaggio, mi rispose: «Vero e umano». L’ho trovata magistrale! «Vero e umano», questa è la chiave della popolarità di Caravaggio, non il marketing, non la grancassa mediatica. Sulla connoisseurship e la diagnostica ti direi che sono strumenti imprescindibili per avere più informazioni, e possono essere illuminanti. Affidarsi però solo alla diagnostica sarebbe una mancanza di fiducia nella ragione e nell’occhio umani poco giustificata. La conosseurship non è una scienza esatta (e perché la medicina lo è?), ma scienza resta: l’attribuzione rimane il più grande atto critico, ed è certamente possibile che dia frutti tutt’altro che arbitrari.
Sto curando insieme a Patrizia Piscitello, su invito del direttore del Museo di Capodimonte Sylvain Bellenger, una mostra su Battistello che dovrebbe inaugurarsi per la primavera del 2022 a Capodimonte. Il catalogo dovrebbe decollare con un tuo saggio sui rapporti tra Caravaggio e un maestro locale di formazione tardocinquecentesca come Battistello Caracciolo che, documenti alla mano, sembra essere quanto di più vicino a un allievo il Caravaggio abbia mai avuto. Vi sono opere, come l’«Immacolata Concezione» della Chiesa di Santa Maria della Stella a Napoli, dove in talune parti, come la figura dell’Adamo, par quasi di immaginare l’intervento del Caravaggio. Ci puoi dare gentilmente qualche anticipazione? E, per rientrare a bomba sulla notizia di oggi, questo dipinto madrileno aggiunge del sale al capitolo, sempre così difficile da circostanziare, del primo naturalismo napoletano? Ritieni che l’«Ecce Homo» possa gettare qualche lume sul rapporto tra il Caracciolo e il Caravaggio o temi che un Caravaggio nuovo possa fatalmente finire per schiacciare ogni altro pittore?
Questo Caravaggio che definirei con una battuta «millennial», giacché è il primo a far capolino nel XXI secolo, ci costringerà a riscrivere tante cose, compreso il rapporto tra Caravaggio e il suo amico Battistello. Siamo solo all’inizio dell’avventura, ma come mi hanno detto al Prado oggi: meno male che è arrivato questo quadro, era un po’ che ci stavamo annoiando!
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