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Alessandra Ruffino
Leggi i suoi articoliÈ da poco uscito Praz, elegante e denso volumetto di Raffaele Manica che raccoglie quattro saggi, editi tra 2003 e 2018 (L’elzeviro verso il saggio; In viaggio; Croce e il diavolo; Roma), introdotti da una premessa redatta ex novo. E proprio in avvio l’autore chiede: «Ci è diventato familiare Praz?». Se si guarda alle molte ristampe dei suoi titoli più noti (Gusto neoclassico, Filosofia dell’arredamento, La casa della vita...) e alla loro reperibilità in libreria, si potrebbe rispondere affermativamente (i formidabili Studi sul concettismo, editi nel 1934 e nel 1946, hanno però atteso ristampa per quasi 70 anni: cfr. recensione su «Il Giornale dell’Arte»).
Ma la domanda non è retorica e indica semmai la permanente difficoltà a circoscrivere Praz: anglologo, filosofo dell’arredamento, connaisseur, viaggiatore, personaggio, riscopritore e interprete di tante manifestazioni d’arte minori o insolite (dalla ceroplastica ai Sacri Monti, dagli Emblemi alle silhouette che tanto piacciono ad Alvar González-Palacios), uno capace (come Borges) «di far uscir l’universo dalla conoscenza di un dettaglio erudito».
Il vastissimo sapere di Praz si è esercitato per approssimazioni e specificazioni successive, piene di ritorni e manìe o, per dirla con formula arbasiniana, tra Capriccio & Catasto, e «osservare di scorcio la sua figura d’autore è ogni volta un viaggio nuovo». La non replicabilità dei suoi procedimenti di ricerca e riordino di conoscenze e suggestioni e la qualità della sua scrittura lo avvicinano alla ristretta cerchia di saggisti rimasti atipici nel nostro panorama culturale (Manica cita Longhi, Debenedetti, Solmi, Contini, e a questi si potrebbero forse aggiungere Pietro Citati ed Eugenio Battisti).
Praz è «un autore barocco, di quelli che leggevano la metafora del gran libro del mondo fuori dal suo senso metaforico». La sua capacità di scrivere a gara con la pittura fa di lui un pittore della parola a cui guarderà Testori (ecco un altro nome da aggiungere alla lista). Ma c’è di più. La prosa di Praz, osserva l’italianista romano, «è un modo conoscitivo in sé [...] Praz è uno stile, oltre che un conoscitore nel campo vario che oscilla dagli oggetti alla storia delle idee. Un carattere fortemente empirico».
Empirico, non teorico né teoretico. Il che, nell’Italia dominata dall’idealismo crociano, era un’anomalia. Che nel marzo 1931 Croce avesse stroncato il capo d’opera La carne, la morte e il diavolo, uscito pochi mesi avanti, non stupisce. Ma quando ci si ricordi che il filosofo napoletano stroncò pure La persuasione e la rettorica di Michelstaedter e Le système des beaux-arts di Alain, poi tradotto da Sergio Solmi, si potrà allora misurare attraverso certe ubbie crociane l’irrisolto disagio di molta cultura italiana d’ogni dì innanzi a chi non sia riducibile a schemi dati e consolidati (e qui, a proposito, è utile ricordare che uno dei migliori allievi di Praz, nonché erede della sua cattedra, fu Elémire Zolla...).
Verrebbe quasi da chiedersi se tra i valori messi in valore da Praz non si possa includere anche il rovesciamento del crocianesimo. Croce aveva sì ispezionato certi «bassifondi» della Storia e del gusto (il Barocco, Marino, il marinismo), ma quelle campionature erano state funzionali a dimostrare la tesi dell’eccezione che conferma la regola. Per Praz, al contrario, i vizi di forma, l’infirmitas di carattere, le contaminazioni, gli accoppiamenti poco giudiziosi, i capricci di stile e di natura rappresentavano la norma più appassionante. E in quel viaggio nell’abnorme, fu lui, angelo del bizzarro, il primo a far da scorta agli italiani.
Praz, di Raffaele Manica, 86 pp., Italosvevo, Trieste-Roma 2018, € 12,50
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Un ambiente della casa museo di Mario Praz a Roma. Foto: www.facebook.com/pg/MuseoMarioPraz
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