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Giorgia Aprosio
Leggi i suoi articoliIl Musée de Cluny ha sempre rappresentato un paradosso affascinante: custodire in un palazzo gotico del XV secolo, costruito sopra le rovine delle terme romane di Lutetia, una delle collezioni medievali più importanti d’Europa, significa praticare – già di per sé – una forma di anacronismo controllato. Con la mostra Summon the Chimeras. Medieval Heritage in Contemporary Art (in corso fino al 20 luglio 2025), il museo aggiunge un’ulteriore stratificazione temporale, trasformando questo paradosso nella sua forza. Undici artisti e collettivi contemporanei sono stati invitati a esporre in dialogo con i capolavori del passato, o meglio sarebbe dire in questo caso, ad abitare con le loro opere le sale del museo. La chimera emerge come principio generativo dell’intero progetto, cuore pulsante del credo curatoriale di Rémi Enguehard, responsabile della diffusione e della programmazione hors les murs del Frac Île-de-France, e di Michel Huynh, conservatore generale del Musée de Cluny. I due curatori richiamano all’ordine quella creatura composita che un tempo popolava capitelli romanici e bestiari miniati, non più come semplice ornamento marginale, ma come chiave interpretativa. Così come la chimera sfida i confini tra umano, animale e divino, anche l’operazione curatoriale abbatte le barriere temporali tra antico e contemporaneo, trasformandosi in un manifesto per le buone pratiche museali del futuro.
Il risultato è straniante nel senso migliore del termine. Gli interventi si insinuano tra le teche e gli arazzi, confondendo volutamente i piani della narrazione museale: non si tratta di semplici “ospiti” contemporanei, ma di presenze che sembrano emergere dalla materia stessa del Cluny. Jacopo Belloni trasforma il Green Man medievale in Giombì (Drollery) (2023), un manichino antropomorfo che oscilla tra creatura arborea e burocrate postmoderno. Spiega l'artista: «la mia ricerca parte dalle leggende e dal folklore per creare figure che oscillano tra l'ornamento medievale e l'allegoria del nostro presente». Una parodia che funziona, perché al posto di ridicolizzare, ne rivela un’inattesa attualità: quel volto fogliato che attraversa l'iconografia europea non era forse, già all’epoca, simbolo di un’urgente riflessione sui confini tra natura e cultura? Più radicale la posizione di Alison Flora, che in Ceux qui ne dorment pas et qui gardent (2023) utilizza il proprio sangue come pigmento, dopo averlo estratto secondo un protocollo medico preciso. «In un mondo iperconnesso dove tutto è digitalizzato, questo atto è per me un ritorno a qualcosa di primitivo», dichiara, «disegnare e dipingere sono tra le prime forme di espressione umana. È un modo per riconnettersi con il corpo e con la propria umanità». Il sangue, «prelevato per via endovenosa utilizzando apparecchiature mediche trasforma la procedura medica in atto magico tra scienza ed esoterismo». Un confronto diretto con le pratiche ascetiche medievali che suggerisce una certa continuità più che una rottura.
La lezione di Aby Warburg, mai citata esplicitamente, aleggia in ogni sala sotto forma di prassi museale. Qui le forme sopravvivono, migrano, si trasformano: le Magic cards (2024) di Youri Johnson (Rune de protection: terrains, Fleur bleue, Wall of Swords) evocano gli ex voto, reliquie immaginarie che riattivano l’immaginario medievale legato all’imprevedibilità del fato; le ceramiche assemblate di Richard Fauguet (2009) aggiornano gli aquamanili zoomorfi medievali attraverso l'estetica del kitsch contemporaneo; il corno bovino trasformato in calice gotico da Corentin Darré (2021) carica di simbolismo oscuro un materiale già potentemente evocativo. Gli interventi di Marion Verboom, cresciuta nella città medievale di Le Vieux Mans, portano invece alla mostra una sensibilità più archeologica. «Ero davvero entusiasta di partecipare a questa mostra collettiva,» racconta l’artista, «sono appassionata delle radici del nostro sistema rappresentativo e di come forme e modelli si evolvano nel tempo e nella geografia europea». La sua Achronie 46 (2024), «un capitello merovingio che dialoga su un'asse verticale con un antico motivo a cornucopia, una vite di Archimede e una forma antropomorfa ispirata a un vaso calcolitico di Baden», e la sua Chef (2025), «sintesi tra un reliquiario medievale e la Muse Endormie di Brancusi», dimostrano come sia possibile pensare a una storia delle forme che proceda non più per cesura, ma per continui ritorni di eco.
Il percorso culmina nella cappella gotica quattrocentesca, cuore architettonico del Cluny, dove l’intervento scultoreo Soft Acanthus (2021) del collettivo Xolo Cuintle si insinua nelle lacune delle decorazioni originali, prendendone il posto con un’incredibile naturalezza. Come raccontano gli artisti: «Soft Acanthus è un'opera che germoglia dal muro, dalla piega di una stanza, insinuandovisi negli spazi interni. Ci siamo lasciati trasportare dalle piante che si auto-propagano, quelle che comunemente vengono chiamate "erbacce"». È un'operazione più ambiziosa di quanto non possa inizialmente sembrare: «lavorando con il cemento, ci interessiamo principalmente a tutti quei materiali che compongono l'ecosistema umano nelle aree urbane e, così facendo, tracciano un confine tra la natura e noi stessi. Essendo composte di cemento ma anche organiche, opere come Soft Acanthus sono pensate per interrompere questo ciclo. Parlano al presente delle nostra città».

Ceux qui ne dorment pas et qui gardent Alison Flora 2023 Sang humain sur papier Avec l’aimable autorisation de l’artiste © ADAGP, Paris, 2025 - Courtesy Alison Flora et DS Galerie
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