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Il Weltmuseum (il Museo Etnografico) è parte del complesso museale del Kunsthistorisches Museum di Vienna

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Il Weltmuseum (il Museo Etnografico) è parte del complesso museale del Kunsthistorisches Museum di Vienna

Restituzioni: c’è un modello austriaco

Dalle spoliazioni naziste al dibattito sull’arte coloniale, parla il nuovo direttore del Weltmuseum di Vienna Jonathan Fine: «I musei etnografici sottolineano che vi sono molte più cose che uniscono gli esseri umani rispetto a quelle che li dividono»

Flavia Foradini

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Newyorkese trapiantato in Europa, un dottorato in Storia dell’Arte a Princeton e uno in Giurisprudenza a Yale, Jonathan Fine, 52 anni, è il nuovo direttore del Weltmuseum, il Museo Etnografico parte del complesso museale del Kunsthistorisches Museum, nella capitale austriaca. Prima di giungere a Vienna, è stato a lungo curatore delle collezioni di Africa occidentale, Camerun, Gabon e Namibia al Museo Etnologico di Berlino e, dal gennaio 2020, è stato direttore di tutte le collezioni dell’istituzione tedesca. Prima sulle rive della Sprea e ora sulle rive del Danubio un tema che Fine si è trovato ineludibilmente di fronte è quello scottante della restituzione di manufatti provenienti da contesti coloniali.

In Austria finora il tema restituzione è stato strettamente collegato alle opere razziate nel periodo nazista, e un’apposita legge del 1998 ha prodotto in oltre vent’anni un continuo e ingente flusso di opere riconsegnate agli eredi dei legittimi proprietari: una gigantesca operazione basata su sistematiche ricerche sulla provenienza. Ora a livello internazionale l’attenzione è focalizzata maggiormente sui contesti coloniali. Il Weltmuseum ha 180 pezzi ascrivibili ai manufatti cosiddetti del Benin. Per lei quanto è importante il tema della provenienza?
È estremamente importante capire come gli oggetti del museo hanno lasciato il luogo in cui erano stati prodotti, quali sono stati i tragitti che li hanno portati altrove e come sono giunti a Vienna. Nel contesto coloniale, i bronzi del Benin sono in qualche modo un’eccezione perché, anche se non conosciamo i loro percorsi verso il mercato dell’arte, le circostanze di violenza che ve li fecero giungere dopo l’invasione britannica del Regno del Benin nel 1897 sono chiare. Sembra dunque un caso facile, ma vi sono molte zone grigie da valutare e la nostra collezione è in un certo senso particolare, perché comprende anche oggetti che gli Asburgo acquisirono nel XV o XVI secolo, non frutto di razzie.

Quando l’estate scorsa la direttrice generale del Kunsthistorisches Museum, Sabine Haag, annunciò il suo insediamento alla guida del Weltmuseum, espresse il desiderio che venisse attuato un controllo accurato e trasparente di tutte le collezioni. Che cosa è stato fatto in questi mesi?
Il Weltmuseum dispone di circa 250mila oggetti e di quasi altrettante fotografie storiche. Abbiamo scelto dei focus prioritari, il primo dei quali sono le acquisizioni della Marina Militare Asburgica, attiva in tutto il mondo. L’esame svolto finora ci dice che, per definire il contesto in cui gli oggetti vennero acquisiti, la questione è più complicata del previsto. Ci vorrà ancora un anno per esaminare più da vicino e sistematicamente tutti gli ingressi di oggetti nelle collezioni fin dagli albori. Ma spero che avremo presto una visione d’insieme, per capire dove intervenire più in profondità.

Lei pensa sia moralmente accettabile tenere in mostra oggetti la cui provenienza non è stata chiarita, come sta facendo il Weltmuseum?
Direi che è importante che i musei non nascondano il loro problemi. Ma io non vedo un problema etico nell’esporre oggetti la cui provenienza non è nota, a patto che si tematizzi la questione. Credo sia invece irresponsabile esporre oggetti senza entrare nel merito della loro storia, là dove sussistano dubbi. Nel nostro museo per esempio i gruppi di oggetti dal Regno del Benin e dall’Etiopia hanno origini che vengono ben tematizzate e spiegate circa il perché e il come si trovano qui.

Le collezioni dei musei pubblici austriaci sono proprietà dello Stato e per ogni accertata provenienza illegittima la restituzione da parte delle varie istituzioni deve essere autorizzata. Finora, per quanto riguarda le opere razziate a partire dal 1933, il compito di formulare raccomandazioni ai Ministeri competenti, sulla base delle ricerche svolte dall’apposita Commissione mista sulla provenienza, è in capo a un comitato consultivo. Questa articolata soluzione può essere un modello anche per un team che si occupi di manufatti da contesti coloniali nelle collezioni dei musei pubblici del Paese?
Proprio in queste ultime settimane la sottosegretaria di Stato alla Cultura, Andrea Mayer, ha riunito un comitato internazionale e interdisciplinare di cui faccio parte e che ho l’onore di presiedere. Comprende specialisti austriaci, storici, esperti legali, direttori di musei così come esponenti di istituzione straniere, fra cui Emmanuel Kasarherou dalla Francia, Barbara Plankensteiner dalla Germania, Henrietta Lidchi dall’Olanda, Anna Schmidt da Basilea, Golda Ha-Eiros dalla Namibia.Il nostro intento è di formulare raccomandazioni molto chiare e trasparenti al Ministero su quale potrebbe essere una procedura adeguata per valutare la restituzioni di oggetti coloniali. Al momento stiamo esaminando il contesto europeo e internazionale in cui queste richieste vengono avanzate e il mio auspicio è che operatori dai Paesi che chiedono restituzioni partecipino fornendo un «input», in modo che questo percorso sia appropriato anche dalla loro prospettiva. È importante aggiungere che le questioni derivate da oggetti di contesti coloniali sono diverse da quelle sollevate da espropriazioni naziste, come anche il «know-how» per affrontare le richieste. Tuttavia stiamo tenendo conto dell’esperienza di quel comitato.

In quale misura potete avvantaggiarvi delle procedure della Commissione sulla provenienza e del comitato consultivo per la restituzione di opere razziate dai nazionalsocialisti?
La legge austriaca del 1998 è stata creata per risolvere la questione di alcune categorie di oggetti entrati nelle collezioni pubbliche in seguito a espropriazioni naziste e non restituite dopo la guerra. Vi sono alcuni princìpi che considero importanti e che possiamo mutuare da quegli organismi. Innanzitutto, che la ricerca sulla provenienza deve essere condotta in modo indipendente rispetto ai musei, e che nessun direttore o addetto di un museo può bloccare le ricerche o nascondere documenti. In secondo luogo che anche la decisione di raccomandare o non raccomandare una restituzione è indipendente dal museo interessato. Un altro elemento che considero importante è che l’Austria ha compiuto il passo di ancorare in una legge le sue procedure riguardanti l’arte espropriata dai nazisti, il che significa disporre di un’approvazione democratica e non soggetta ai venti mutevoli che spirano da ambiti politici. In altre parole, c’è un chiaro insieme di criteri e c’è una chiara procedura, ed entrambi sono trasparenti. È un’importante distinzione rispetto ad alcuni altri Paesi europei. L’Austria ha una legge che permette la restituzione senza l’esplicita approvazione del Parlamento per ogni singolo caso e questo abbassa la barriera per le restituzioni, però salvaguarda al tempo stesso la procedura da decisioni basate su criteri mutevoli. In Francia hai bisogno di un atto parlamentare per restituire qualcosa e questa è una soglia molto alta da varcare. In Germania il processo decisionale è essenzialmente politico. Non ritengo che i tedeschi procedano interamente a vista ma senza una legge i cambiamenti nell’approccio tendono a essere più possibili ed è molto più difficile per gli operatori del settore sapere quale sia la loro collocazione in questo processo. Queste differenze sono significative e perciò penso sia importante approfondire alcuni precedenti creati dall’Austria per il contesto nazista, e vedere come potrebbero applicarsi a questioni poste da oggetti coloniali. Non posso prevedere o prevenire ovviamente le conclusioni del comitato, ma penso che la legge sulle espropriazioni naziste potrebbe aiutare a stilare norme per le restituzioni coloniali, e comunque mi pare che l’iniziativa della segretaria di stato Mayer circa i manufatti coloniali dimostri un positivo impegno del Ministero della Cultura e del Governo rispetto alla questione.

Il Weltmuseum restiuirà i bronzi di Benin?
Il dialogo con la Nigeria è in corso e quindi non ho una risposta definitiva. Tuttavia sarei molto sorpreso se non raggiungessimo una soluzione simile a quella di altri Stati europei. Un esito in questa questione potrebbe anche aprire nuove vie per mostre collaborative con le autorità nigeriane, per esempio con il Museo Nazionale di Lagos, che ha una collezione semplicemente straordinaria, senza eguali al mondo per qualità, ampiezza e profondità, e poco esposta al di fuori della Nigeria. E vi sono molti altri eccellenti musei in tutta l’Africa: in Senegal, Namibia, Sudafrica, Camerun...

Il Weltmuseum possiede anche un altro manufatto oggetto di contesa, la «corona di Montezuma», registrata nell’ultimo scorcio del XVI secolo negli inventari dell’arciduca Ferdinando II del Tirolo e sempre rimasta in Austria. È un tema che ricorrre ormai da molti anni, e recentemente un gruppo di attivisti ha nuovamente richiamato l’attenzione sull’importanza che quel manufatto riveste per il Messico.
Dal punto di vista storico, per la conquista dell’Impero azteco e dell’America centrale da parte della Spagna siamo di fronte a un innegabile contesto di violenza e distruzione; diciamo anche che è del tutto oscuro come la Corona lasciò quei luoghi. Va detto inoltre che anche in contesti molto violenti è possibile e pensabile che avvenissero scambi e doni. Penso inoltre che si tratti di un oggetto che è stato in Austria per oltre 4 secoli, che cioè oggi esiste perché è stato parte delle collezioni asburgiche. Detto questo, io credo che quell’oggetto dovrebbe essere reso disponibile per i messicani, affinché godano della sua vista in Messico. Sfortunatamente i conservatori sia messicani sia austriaci che l’hanno esaminata hanno affermato che l’oggetto non sopravviverebbe al viaggio, per via della sua estrema fragilità. L’iridescenza color smeraldo delle oltre 400 piume di quetzal in strati sovrapposti è per esempio data dal fatto che sono in parte attorcigliate e ritorte, e questo le rende massimamente fragili. Pensi che durante la nostra ultima mostra sugli Aztechi, fra il 2020 e il 2021, l’esposizione era al piano terra, ma per vedere il pezzo più importante, cioè la corona, dovevi salire al primo piano: non poteva essere spostata. Sappiamo che molti musei hanno usato lo stato di conservazione di oggetti come mezzo per evitare di restituirli o prestarli, perciò mi rendo conto che possa essere difficile credere a quanto dico, ma è un tema che ho discusso molto molto ampiamente con i conservatori. Contrariamente ai bronzi del Benin, che non presentano problemi di trasporto, la corona non resisterebbe alle vibrazioni e men che meno a eventuali urti. Non è come con dei dipinti, dove puoi intervenire se si stacca del colore o si danneggia: le barbe delle piume si staccherebbero.

L’azione di sensibilizzazione alla questione della presenza fuori dal Messico di un oggetto simbolicamente capitale per la cultura del Paese non ha prodotto una denuncia da parte del museo. Come mai?
Se avessimo denunciato avremmo imboccato una strada completamente sbagliata. In realtà sono stato molto felice che sia successo perché ha prodotto davvero nell’opinione pubblica una discussione sul tema, il che è esattamente ciò per cui questo museo esiste, altrimenti troverei difficile dire a che cosa servano realmente i musei etnografici, a parte semplicemente rappresentare e ricreare stereotipi del passato, allo stesso tempo razzisti e offensivi. Per cui quell’intervento degli attivisti ha avuto effetti molto positivi, è stato un modo elegante di far sentire altre voci, ed è per questo che l’abbiamo definito «intervento artistico». Avrei tuttavia apprezzato se gli attivisti mi avessero contattato e avessimo trovato insieme un modo per realizzare un intervento.

Prima di venire a Vienna è stato a lungo in posizioni apicali al Museo Etnologico di Berlino. Nell’approccio alla questione dell’arte coloniale riscontra analogie fra le due città?
Penso che Vienna sia più avanti di Berlino in questa questione, anche se credo non sia una cosa apprezzata da molti. La riapertura del Weltmuseum nel 2017 dopo l’articolato restauro ha indotto il museo molto prima della Germania a interrogarsi pubblicamente su cosa significhino le collezioni coloniali, su come possano essere presentate o non presentate. Il Weltmuseum ha riaperto nello stesso anno in cui Bénédicte Savoy (nel 2017 Savoy lasciò il team internazionale di esperti chiamato in vita nel 2015 per il progetto dell’Humboldt Forum di Berlino, muovendo accuse fra l’altro di mancanza di trasparenza nelle ricerche sulla provenienza, suscitando forte clamore, Ndr) si dimise dal comitato consultivo per l’Humboldt Forum, quando cioè con la realizzazione delle sue nuove mostre l’istituzione viennese aveva già assunto pubblicamente una posizione su quei quesiti. Se visiti il Weltmuseum, non puoi non confrontarti con il dibattito in corso sul tema.

Come vede il ruolo dei musei etnografici nella società odierna?
I musei etnografici sono un luogo di dibattito e hanno come tema la varietà della cultura e della storia umana. In un tempo in cui quella varietà è sempre più sotto attacco da parte di chi tende a falsificare la Storia e a ricreare divisioni nazionalistiche e razziste, noi abbiamo il compito di sottolineare che vi sono molte più cose che uniscono gli esseri umani, rispetto alle cose che li dividono. Un’altra sfida del prossimo futuro è come fare incontrare le persone intellettualmente, spiritualmente, artisticamente e culturalmente, visto che la possibilità di muoversi, il contatto fisico, sono diventati improvvisamente più difficili.
 

Jonathan Fine

Copricapo di piume di Quetzal, o «Corona di Montezuma» (ca 1515), Messico © KHM-Museumsverband

Un particolare dalla sala «Benin e Etiopia: Arte, Potere, resistenza» all'interno del Weltmuseum

Flavia Foradini, 20 maggio 2022 | © Riproduzione riservata

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