Stefano Miliani
Leggi i suoi articoliCon un felice abbraccio tra ricerca storico artistica e scientifica il Perugino (1450 ca-1523) non è mai stato indagato così a fondo. Il convegno «Luce e colore nel Rinascimento umbro, da Perugino a Raffaello», tenuto alla Fondazione Perugia nel capoluogo umbro il 24 e 25 settembre scorsi, ha coronato un progetto interdisciplinare e pluriennale sul pittore di Città della Pieve condotto dal LabDia-Laboratorio di diagnostica per i beni culturali, insieme alle Università di Urbino, di Perugia e Pavia e al Cnr di Porano (Terni), sostenuto dalla Fondazione medesima. Con la storica dell’arte Vittoria Garibaldi quale responsabile scientifico, dal 2021 il laboratorio ha condotto analisi non invasive, con strumentazioni trasportate in loco, sulle 36 opere del pittore disseminate in Umbria. Inserita tra le iniziative del 2023 per i 500 anni dalla morte, la ricerca ha prodotto una campagna fotografica ad altissima risoluzione e ha coinvolto il territorio marchigiano con la docente di chimica per i beni culturali nell’ateneo urbinate Maria Letizia Amadori. Il LabDia è frutto di un’intesa tra Ministero della Cultura, Regione Umbria, Comune di Spoleto dove ha sede, il Dipartimento di chimica dell’Università perugina.
«Negli affreschi Perugino miscela sapientemente i pigmenti e li integra con polvere di vetro ed ematite per avere una maggiore brillantezza e luminosità, dice Vittoria Garibaldi a «Il Giornale dell’Arte». Parte da una pittura piena, compatta, liscia, usando anche per l’affresco le procedure dei dipinti su tavola, e liscia perfettamente l’intonaco fino a ottenere una superficie lucida». Le analisi, precisa la studiosa, hanno portato novità: «Sulle opere dal 1486 in avanti si può affermare che la tecnica “a pennellate filamentose” (che si intrecciano e si sovrappongono per costruire la figura) si intravede già nella “Crocifissione” nella Cappella della Porziuncola in Santa Maria degli Angeli presso Assisi per poi arrivare agli estremi nei dipinti tardi come la “Deposizione” di Città della Pieve e soprattutto la “Adorazione dei Magi” di Trevi, anticipando la pittura divisionista». Sulla «Crocifissione» la responsabile del LabDia indica due notizie: «Con la presenza ovvia di collaboratori in un affresco di vaste dimensioni, è definitivo il riconoscimento dell’autografia dell’impianto compositivo; due documenti della seconda metà degli anni ’80 del Quattrocento e la qualità del dipinto riscontrata con le indagini riportano l’affresco a quel periodo».
Sulla materia della «Crocifissione» assisiate Maria Letizia Amadori interviene con una scoperta curiosa: «Il Perugino ha impiegato un’ematite metallica cristallina dall’aspetto micaceo che ad esempio si trova all’Elba: macinata, dà un pigmento nero con particelle lamellari che diventano luminose e bianche se illuminate. In pittura è usata qui per la prima volta: poi è stata impiegata da altri e nel 1889 sulla Torre Eiffel».
Per Vittoria Garibaldi non è del 1510 ca il «Battesimo di Cristo» nel Duomo di Città della Pieve, dopo che, con Antonio Natali, già l’anno scorso suggeriva di anticipare la datazione. Oltre all’ipotesi di collegarlo a un lascito testamentario del 1495, anche per la prestanza dei corpi la studiosa fa un confronto con un’opera celeberrima: «Le gambe, soprattutto del Cristo, conservano perfettamente il chiaroscuro tipico degli anni ’80 e ’90 del Perugino; inoltre, come aveva osservato Natali, Gesù ha i piedi nell’acqua del Giordano: è una novità che richiama il “Battesimo” del Verrocchio modificato da Leonardo tra la metà degli anni ’70 e il 1480 e che probabilmente il pittore umbro può aver visto perché aprì bottega a Firenze nel 1486».
Maria Letizia Amadori, che ha lavorato con Rodolfo Battistini e Gianluca Poldi, in Umbria ha analizzato i dipinti murali del Perugino mentre nel 2021 aveva avviato un progetto su tre opere marchigiane finanziato dalla Fondazione Cassa di risparmio di Pesaro e studiate anche dal LabDia: a Fano la «Pala di Durante» e l’ «Annunciazione» di Santa Maria Nuova, poi la «Pala di Senigallia» nel locale museo diocesano. «Per la “Pala Durante” e quella di Senigallia l’artista usa lo stesso cartone, l’identica composizione, riferisce Amadori. Con l’infrarosso abbiamo visto che il san Giacomo nel dipinto di Senigallia in origine era disegnato come la Maddalena (presente rimane nell’altra Pala), poi rende il volto un po’ incavato nelle guance e aggiunge la barba. Di frequente il pittore disegna personaggi giovani e androgini e, dopo, li adatta a maschio o femmina. Inoltre, se di norma su tavola dipinge a olio, la “Pala di Senigallia” ha tratteggi a tempera per rafforzare le ombre».
Altre novità interessano i pigmenti. «Anche il Perugino usa polvere di vetro in aree contenenti lacca rossa come l’hanno utilizzata Giusto di Gand, Giovanni Santi e poi Raffaello, ma per ora non sappiamo dove ha appreso questa tecnica fiamminga riscontrata in dipinti del 1470 a Urbino, osserva Maria Letizia Amadori. Per impreziosire le opere su tavola usa lacche, il vermiglione, l’azzurrite oppure il più costoso blu oltremare il quale però, se usato con l’olio (non con la biacca), si altera e iscurisce, creando un fenomeno noto, la “malattia dell’oltremare”».
Tra i tanti contributi, Carla Mancini, restauratrice, riferisce di una recente «sorpresa» nella Chiesa trecentesca di Fontignano (Pg) dove il pittore attendeva all’«Adorazione dei pastori» (oggi al Victoria & Albert Museum di Londra) quando la peste lo ghermì. In una ricerca in itinere la riflettografia ha svelato un disegno preparatorio eseguito di getto, indice «della sua capacità di dipingere a mano libera». In più, in un foro dietro la tomba dove si ritiene siano state sistemate le sue ossa è emerso tra l’altro un sacchetto di pelle contenente un rosso di ossido compatibile con le sinopie sotto l’affresco. Dunque, afferma la restauratrice, la voce secondo la quale il Perugino fu sepolto lì «con colori e pennelli ha un fondo di verità».
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