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I corridoi gremiti di Tefaf New York il giorno dell'inaugurazione dell’edizione 2024

Cortesia di Tefaf. Foto Jitske Nap

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I corridoi gremiti di Tefaf New York il giorno dell'inaugurazione dell’edizione 2024

Cortesia di Tefaf. Foto Jitske Nap

Tefaf New York: tra commistione e contaminazione

La versione statunitense della fiera è un tripudio di ceramica, luxury, tessile e design che va a braccetto con correnti, geografie e tendenze riscoperte in tempi recenti

Luca Zuccala

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Ceramica, luxury, tessile e design è un poker di chiavi necessarie a decifrare velleità e tendenze del sistema dell’arte che si sposa con un’altrettanta mano vincente: Surrealismo, America Latina, Parigi e artiste donne, storiche o contemporanee, meglio se «riscoperte» e sensibili a temi politico-sociali. Queste matrici, che si contaminano tra di loro e trovano sfogo concreto nelle maggiori manifestazioni internazionali, espositive o fieristiche che siano, hanno caratterizzato la quattro giorni di Tefaf a New York (dal 10 al 14 maggio) al 643 Park Avenue. Lampadari, arredi, vasi, gioielli, tele: l’esposizione delle «opere» è sempre più eterogenea e diversificata. Parola d’ordine: commistione e contaminazione. Come si dice in gergo, specialmente nel campo delle aste, un’offerta «cross-category» alla quale va a braccetto il concetto di «artificazione». 

Riflesso raffinatissimo di come vanno le cose, nell’accezione più positiva che ci possa essere, la decima edizione della fiera si è svolta nel cuore dell’Upper East Side, il salotto buono dei billionaire newyorkesi, che per la cronaca sono sempre di più, per il bene del settore. A Manhattan i fiori cascavano dal soffitto come a Maastricht, cristallizzati nei totem di peonie, ma lo struscio della preview è durato solo un giorno (il 9 maggio, nel Limburgo sono tre), in proporzione anche al numero di gallerie, 90 rispetto alle 270 olandesi. Garantite le vendite (sia il primo giorno, sia nel weekend ma la lentezza e cautela negli acquisti è stata sintomatica della precarietà e l’instabilità dei tempi che corrono). Sfilata di attori, star e starlette e di mega collezionisti provenienti da ogni parte degli States e dal Canada e di direttori e curatori (oltre 50, tra cui Andrea Bayer, Anne-Lise Desmas, Barbara Haskell e Davide Gasparotto), ma soprattutto scorrere di fiumi di champagne e ostriche non appena si sono aperte le porte della kermesse. I galleristi, qua, sono praticamente tutti di casa, almeno per quanto riguarda gli americani. Di Donna, Gagosian, Skarstedt, Salon 94, Almine Rech, White Cube, Petzel e via dicendo, tutti con base appena girato l’angolo sulla Madison. Logisticamente l’evento è stato ineccepibile, con Sotheby’s, Christie’s e Phillips a pochi isolati (in ghingheri per le aste clou della stagione, le «Spring Sales», in programma dal 14 al 17 maggio) e tutti i grandi musei a portata di mano, Met Breuer compreso (ora chiuso, ma prossima sede del quartier generale di Sotheby’s dal 2025) come la Frick Collection pronta a riaprire questo autunno definitivamente. 

Una veduta di Tefaf New York dalla balconata superiore. Cortesia di Tefaf. Foto Jitske Nap.

L’andazzo era palese appena oltrepassata la prima soglia temporale tempestata da gigli e ranuncoli all’ingresso: Gagosian a destra, con la combo Brice Marden (scomparso un anno fa e in profumo di record martedì da Christie’s) e Cy Twombly, insieme sotto l’egida dinamica del segno e del mito; la galleria Jacques Lacoste a sinistra, che ricreava la Sala da Ballo del Barone Roland De L’Espée, realizzata da Jean-Michel Frank, Alberto Giacometti, Salvador Dalì (suo l’iconico divano Bocca, in raso rosa e velluto rosso, che imita le labbra dell’attrice Mae West) e il nostro Filippo De Pisis in bella mostra con un paravento sublime. Un frammento struggente della Parigi anni Trenta catapultato nella New York inquieta del terzo millennio. L’ideatore, Frank, fu l’unico architetto incluso nella storica esposizione sul Surrealismo del 1936 al MoMA curata da Alfred Barr; e poi Landau, tra Zwirner e Gagosian, imperturbabile. Il mercante rimane il caposaldo della vecchia scuola: stand immutato dalle passate edizioni e offerta identica a quella di due mesi fa a Maastricht, il KandinskijMurnau mit Kirche II» del 1910, capolavoro giovanile dell’artista che lo scorso anno era volato in asta a 44,9 milioni di dollari, la richiesta in fiera era tra i 50 e i 60 milioni) e il bellissimo Picasso ad intagli rossi del 1927; David Zwirner, sempre nel primo step del salone principale, ricamava uno stand coi fiocchi, facendo gravitare una selezione di «Nature Morte» di Morandi (richiesta dagli 850 mila a 3,5 milioni di dollari) su una sfilata di vasi di ceramica di George Ohr, indimenticato ceramista del Mississipi. Sul cielo della quattro gallerie d’ingresso galleggiava una installazione rosa trasparente e fiammeggiante dell’artista ucraino Aljoscha (1974), impressioni metamorfiche viste recentemente, durante la Design Week milanese. Si tratta di una delle cinque opere «extra» che costellavano gli angoli e le architetture della fiera.

All'Armeria, due tra i pezzi in assoluto più cari la dicono lunga su quanto anticipato nell’incipit: l’uccello a dondolo di Lalanne e la figura onirica e straziata di Rufino Tamayo su una tavola cremisi. Cominciamo dal primo. L’«Oiseau de jardin à bascule» è una delle creazioni iconiche di François-Xavier Lalanne. Datato 1974, è una fantasmagorica creazione in acciaio e rame che trasforma l’immagine di un passero in una sedia a dondolo, il cui movimento diventa metafora delle movenze del pennuto intento a beccare. Offerto dalla parigina Galerie Mitterand, la richiesta era tra i 5 e i 6 milioni di euro. Il secondo pezzo in questione parla messicano, enclave tra le più in voga assieme a tutto il Centro America nel sistema dell’arte odierno. Si intitola «Claustrofobia» ed è un’opera storica di Tamayo (1954), quotata 3 milioni di dollari dai proprietari, la Galleria Leon Tovar (New York, Bogotà), trasferitasi nella Grande Mela vent’anni fa e tra le maggiori promotrici del Surrealismo nella sua declinazione «latina». Geografia riscoperta e consacrata appena due anni fa grazie alla Biennale di Cecilia Alemani e alle mostre tra 2021 e 2022 come «Surrealism Beyond Borders» (Tate e Metropolitan) e «Surrealism and Magic: Enchanted Modernity» alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, di cui è espressione apicale quel «Les Distractions de Dagobert» di Leonora Carrington, tempera su masonite del 1945, in asta mercoledì nella «Modern Evening Auction» di Sotheby’s; capolavoro “garantito” e stimato 12-18 milioni, destinato a polverizzare il precedente record, «Il giardino di Paracelso» a 3,3 milioni di dollari. Effetto Biennale. Quello di cui ha beneficiando sulla parete limitrofa nello stand, sempre dentro Leon Tovar, una delle pioniere dell’arte moderna colombiana, Emma Reyes (1919-2003). Una delle grandi riscoperte, vedi il successo di critica riscosso in queste settimane post-inaugurazione lagunare, di Adriano Pedrosa. In fiera era presentata attraverso una costellazione di lavori su carta dagli anni Cinquanta ai Sessanta, prezzati poche decine di migliaia di dollari, volti a saturare quasi tutto lo spazio verticale.

Quadreria claustrofobica anche per BLUM (senza più il socio POE da qualche mese) che ha presentato una mostra curata da Alison Gingeras, focus sulla ritrattistica come «forma eternamente democratica e genere umanistico» con mosaico di quadri di Orozco, Warhol, Duchamp, Sicilia, Tuazon, Ligon, solo per citarne alcuni. Se da Thaddaeus Ropac spiccavano i lavori dell’astrattista americana 84enne Joan Snyder (il dittico «Primary Fields» del 2001 è stato venduto per 350mila dollari a un’istituzione asiatica, mentre la richiesta per i lavori su carta era dai 15 ai 40 mila dollari l’uno), Petzel Gallery dedicava una personale al pittore e incisore francese Roger-Edgar Gillet (1924-2004) nel centenario della nascita, discorso valido anche per il sempiterno Surrealismo, il Manifesto di Breton è del 1924 (presente anche da Hazlitt Holland-Hibbert in contrapposizione a due tiepidi acquerelli di Lucian Freud e ai frammenti di dramma di Paula Rego).

«Primary Fields» (2001) di Joan Snyder © Joan Snyder. Cortesia di Thaddaeus Ropac gallery, London · Paris · Salzburg ·Seoul

Totalmente in antitesi rispetto a Gillet era l’ultimo solo show tra le navate fieristiche: i piani analitici bianco su bianco del polacco Raimund Girke (tutti i lavori degli anni Settanta) da The Mayor, sui quali si imponeva il mantra recitato nello stand a caratteri cubitali: «Silence, eptiness, breadth - places of rest, places of recollection». Lo «scettro» del migliore stand in assoluto quest’anno, a detta dei più, va a Jeanne Greenberg-Rohatyn, fondatrice di Salon 94, e alla sua preziosa «riscoperta»: Rebecca Salsbury James, pittrice londinese autodidatta (1891-1968), amica di Georgia O’Keeffe, sposata con il fotografo Paul Strand, nonché modella e musa ispiratrice di Alfred Stieglitz, la cui ricerca è un compendio di lirismo e intimità tradotti su lastre di vetro. «Song Without Words, Pansy Bouquet, Taos Geranium, Peace» (anni Trenta) sono sintetiche composizioni di Nature Morte dipinte ad olio, il cui valore oscillava tra i 250 e i 400 mila dollari, assemblate nello stand con pezzi di arredo scolpiti in bronzo e porcellana da David Wiseman, tra i più importanti designer contemporanei statunitensi. Nella top three degli stand maggiormente curati, quelli che meritano almeno una menzione, seguono Di Donna e White Cube. La prima si concentra sul cosmo facendo brillare al suo interno opere di Paul Klee, Alexander Calder, Yves Tanguy e Yves Klein, con un range di prezzi compreso tra 700 mila e 2,5 milioni di dollari. Se per Klee e Calder l’invito era di andare direttamente in galleria sulla Madison a toccare le forze invisibili dell’universo sprigionate nel dialogo tra i due («Enchanted Reverie», sino all’8 giugno), per Tanguy era bene restare in fiera a contemplare i due lavori «rari e speciali» offerti dalla galleria, entrambi del 1945, quando il surrealista parigino viveva in Connecticut con la sua seconda moglie, la pittrice e poetessa Kay Sage (altro nome da segnare per i mesi a seguire, tra aste e fiere). Per Klein, invece, oltre alla fiera, era buona cosa puntare dritto verso la sede di Lévy Gorvy Dayan tra la Madison e la 64esima, per ammirare la più bella mostra di tutto il maggio newyorkese: «Yves Klein and the Tangible World». Le forme tattili e sinuose delle sue «Antropometrie» non possono che rimandarci nello scheletro industriale della fiera, dove una nuvola solida catalizzava il cuore dello stand di White Cube, l’ultimo della nostra scelta. Sopra la nube si stagliavano sculture di David Smith, Isamu Noguchi, Richard Hunt e soprattutto Anthony Gormley (in mostra contemporaneamente anche in galleria con una doppia installazione immersiva monumentale), su cui orbitavano un compendio di tele di Ruscha, Ryman, Pollock e una Lee KrasnerThe Farthest Point», 1981) da quasi 4 milioni di dollari.

Soltanto sei erano le partecipazioni nostrane: Cardi, Mazzoleni, Continua, Tornabuoni, Galleria d’Arte Maggiore, Massimodecarlo. Quest’ultima proponeva Salvo accompagnato egregiamente da due rari lavori in formato tondo di Etel Adnan (200 mila dollari l’uno), grande artista libanese ora in Biennale, e del profeta di casa (sia perché è americano sia perché è in scuderia con De Carlo) John McAllister. Mazzoleni proponeva «Bianco Plastica» (1965) di Burri, da 1,5 milioni di dollari e l’ennesimo Salvo, «La Valle»(2006) sui 450 mila. Tra le chicche in giro per le tre navate allestitive che sezionano l’Armeria, spiccava un leone egizio, accovacciato, in legno, da 110 mila dollari (Charles Ede); la «Moon Blue» (1963) di Helene Frankenthaler che risplendeva nel cielo di Yares Art; il fotorealismo liquido anni Settanta degli acquerelli di Ralph Goings da Waddington Custot; i quasi 4 metri di arazzo (tiratura da otto esemplari) di Gerhard Richter, «Yusuf» del 2009, visto nel 2013 in mostra da Gagosian a Londra (Anthony Meier); il «design and furniture» del XX secolo di Demisch Danant, Patrick Seguin e Galerie Marcilhac; i gioielli d’artista di Otto Jakob e le opere tessili di Olga de Amaral (altra artista ora in Biennale) vendute a oltre 200 mila dollari da Lisson; menzioni d’onore per Axel Vervoordt e Ariadne che hanno sfruttato sapientemente i posti riservati al primo piano, grazie al velluto e a una rete metallica che avvolge le opere dei rispettivi stand, lasciando così la quinta teatrale neogotica connotativa del luogo. Per il super contemporaneo, impossibile non citare Venus Over Manhattan, con lavori monumentali di Robert Colescott, Peter Saul, Xenobia Bailey e Claude Lawrence. Chiosiamo da dove siamo partiti, senza smarrire i nostri otto punti cardinali. Il primo di questi era la «ceramica». Se spesso la troviamo in un corpo a corpo con altri linguaggi artistici, a Tefaf la londinese Offer Waterman presenta un trittico d’autore dedicato a quella cosiddetta «arte minore». Tre ceramiste, Lucie Rie (1902-1995), Magdalene Odundo (1950) e Jennifer Lee (1956), considerate tra le massime rappresentanti e influenti della propria generazione, si ritagliavano uno spazio privilegiato all’interno della fiera (con prezzi dai 15 ai 450 mila dollari). Specchio dei tempi, fragili, che corrono, che qua accadono prima che in ogni altra parte del mondo.

 

 

 

 

Luca Zuccala, 14 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

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