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Un nuovo amico nei musei e nelle mostre: il digitale

Dall’assistente virtuale a Caserta alle app del Louvre e di Cracovia, dall’«accompagnatore digitale» fino ai «giochi virtuali», le tecnologie si diffondono negli spazi dell’arte

Luana De Micco

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Dall’assistente virtuale a Caserta alle app del Louvre e di Cracovia, dall’«accompagnatore digitale» fino ai «giochi virtuali», le tecnologie si diffondono negli spazi dell’arte. Ma, avverte Florence Raymond del Palais des Beaux-Arts di Lille: «Attenti a non rendere deludente la realtà: sta a noi musei fare in modo che l’esperienza della visita resti più forte di qualsiasi proposta digitale». E per Mauro Felicori, direttore a Caserta, «la sfida è trasformare i musei in macchine comunicative. La tecnologia da temere è soltanto quella che si compiace troppo di se stessa»

Il digitale sta rivoluzionando il nostro modo di visitare i musei e in Italia questa rivoluzione passa per la Reggia di Caserta. È qui, nel palazzo reale che Carlo di Borbone volle bello come Versailles, che è nato il primo «assistente virtuale» di un museo italiano. Si chiama Borbot (nome che mescola Borbone e robot) e ha il volto di un omino simpatico. Indossa il manto e la corona di un re ma al posto dello scettro agita uno smartphone. «Lo» strumento transgenerazionale, che è nelle tasche di tutti o quasi, è infatti al centro di questa rivoluzione. Borbot è un’intelligenza artificiale che sfrutta la chat del profilo Facebook della reggia vanvitelliana. Si chatta su Messenger con lui come si fa con un amico, solo che dall’altra parte del filo non c’è una persona «umana» ma un robot «intelligente» che può rispondere a tutte le tue domande su orari di apertura, prezzi e riduzioni, eventi particolari, e lo fa 24 ore su 24. 

Le sue potenzialità sono immense: «Borbot è un chatbot, ovvero un software in grado di dialogare con te. Gli fai una domanda, lui capisce le tue intenzioni e ti risponde. Questa tecnologia ha il vantaggio di sfruttare le potenzialità di piattaforme già esistenti e, come nel caso di Facebook e Messenger per Borbot, molto diffuse e già usate da milioni di persone nel mondo», spiega Danilo Zito, lo sviluppatore della startup casertana 360open che insieme a Kevin Iuretig ha creato Borbot. «I chatbot possono avere comportamenti più o meno umani, continua. Possono essere semplici autorisponditori oppure, come nel caso di Borbot, sono dotati di un algoritmo che si va a incrementare, per cui sono in grado di arricchire le loro conoscenze». Per ora Borbot risponde solo a domande di tipo pratico e in italiano. Ma, se «istruito», può moltiplicare le sue funzionalità e trasformarsi in assistente multilingue, può dare consigli su ristoranti e alberghi dei dintorni e sostituire anche la classica audioguida del museo: «Durante la visita della reggia si potrebbero per esempio chiedere a Borbot informazioni sulla sala che si sta visitando o su un’opera in particolare. Il tutto nell’ambito di una visita completamente libera. Sarebbe come avere un amico molto istruito e sempre disponibile», osserva Danilo Zito. Borbot è la tecnologia di un futuro che è già presente e un prodotto «Made in Caserta». C’è chi all’estero sta andando più veloce. 

Al Mamba, il Museo de Arte Moderno de Buenos Aires, la tecnologia chatbot si sta già utilizzando per «dialogare», sempre via Messenger, con le opere d’arte e approfondire in questo modo le proprie conoscenze. Il dispositivo (che si sta testando su un’opera dell’artista d’avanguardia argentino Emilio Renart) è stato sviluppato in modo tale che ogni opera risulti dotata di una «personalità» propria, pensata dai conservatori del museo perché sia il più «coerente» possibile con il contesto storico e l’artista.

Ma la Reggia di Caserta ora è pronta ad aprire le porte al digitale e ad andare più lontano: «In questo anno e mezzo la mia priorità è stata un’altra, la comunicazione esterna. Era necessario innanzi tutto permettere a questo monumento di rilevanza internazionale, che era quasi sconosciuto, di farsi conoscere, ha spiegato Mauro Felicori, direttore del palazzo reale dall’ottobre 2015. Per questo la reggia è molto presente sui social ed è il primo museo in Italia per interattività. Ma la questione della comunicazione interna tramite il digitale è primaria per noi e lo deve essere per tutti i musei italiani, dove per tradizione si tende a sottovalutare le nuove tecnologie»». La reggia conta 156mila like su Facebook e da sei mesi è presente su Instagram. Fino al 31 ottobre ospita la mostra digitale immersiva «Klimt Experience», che in primavera ha già accolto 80mila visitatori alla sua prima fiorentina. Un milione di euro di fondi pubblici sarà stanziato per il progetto «reggia digitale»: «Bisogna superare la stagione delle audioguide, che restano comunque uno strumento formidabile, per entrare in quella della guida tramite smartphone, spiega Felicori. Attrezzeremo il palazzo e i giardini di tutti gli spot e i sensori necessari per l’interazione tra il museo e il pubblico. Tra le prime cose da fare c’è anche la creazione di un teatro multimediale. Vi si potrebbero tenere delle conferenze guidando dall’interno un drone che sorvola il palazzo, i giardini e la valle del Volturno, per dare il giusto risalto alla visione aerea sulla regione». 

Visite ad personam Per un museo che vuole essere all’avanguardia e attirare nuovi pubblici, soprattutto i giovani, non è più possible ignorare l’innovazione digitale che ormai fa parte del nostro quotidiano. In Francia, dove si sta rilanciando il turismo internazionale, in calo da un paio di anni anche per la minaccia terroristica, il Louvre che da tempo cura la sua immagine social e naviga su altre cifre (con più di 2 milioni di follower solo su Facebook), ha lanciato un anno fa (luglio 2016) «Louvre: ma visite», un’applicazione gratuita per smartphone e tablet che si trasformano così in veri e propri «compagni di visita». Un sistema di geolocalizzazione ti permette di costruire il tuo itinerario di visita e ti guida nel museo indicando il percorso da seguire per raggiungere le opere che vuoi vedere. Per questo il museo ha installato più di duemila stazioni bluetooth. In ogni momento sai esattamente dove ti trovi e non ti puoi più perdere. Si può accedere a più di 600 commenti.

In Polonia, al Museo Sukiennice di Cracovia (parte del Museo Nazionale), con una app pensata per il pubblico più giovane si possono visionare sullo smartphone una decina di film che raccontano, grazie anche a diversi attori, la storia di una decina di quadri più importanti della collezione del XIX secolo. Il digitale è ora di casa anche al Palais des Beaux-Arts di Lille, uno dei più grandi musei «regionali» in Francia con una collezione di 60mila opere e 255mila visitatori ogni anno (di cui il 19% stranieri). A giugno il museo ha inaugurato un nuovo spazio di «accompagnamento digitale», l’Atrium. Ce lo ha descritto la conservatrice Florence Raymond, responsabile anche del digitale e dei nuovi media. Atrium è un luogo nel quale il visitatore, tramite dispositivi tattili, può preparare la sua visita e personalizzarla in funzione del tempo che ha a disposizione e delle opere che vuole vedere. Una volta che ha costruito il suo percorso può scaricare la app del museo sul suo smartphone e farsi guidare nelle sale. Ma può anche scegliere di farsi inviare il percorso sulla propria mail ed eventualmente stamparlo. I commenti che si postano attraverso i social durante la visita scorrono su un «muro delle emozioni» che si trova nella zona caffè del museo. L’Atrium propone anche uno «spazio di esplorazione» in cui quattro capolavori della collezione sono digitalizzati in gigapixel, in altissima definizione quindi. «Il nostro progetto scientifico si basa sul concetto di complementarità, spiega Florence Raymond. Ecco perché abbiamo deciso di limitare il digitale all’Atrium e, nelle sale, ai soli dispositivi personali dei visitatori. Ci è sembrata una soluzione equilibrata. Il digitale deve essere un accompagnamento alla visita e ogni tanto bisogna potersi disconnettere».

Il Palais des Beaux-Arts de Lille ha osservato le esperienze già esistenti in Europa e in America del Nord prima di lanciarsi nel progetto, in gran parte autofinanziato. In particolare il Museum of Art di Cleveland (Ohio), pioniere in materia, che già nel 2013 aveva investito negli schermi touch e lo scorso anno ha lanciato lo «studio play» dove il visitatore può «giocare» con le collezioni e si improvvisa virtualmente artista. «Di fronte all’onnipresenza degli schermi mobili la conversione dei musei al digitale è indispensabile, spiega Bruno Girveau, direttore del museo di Lille. C’è stata una fase di sperimentazione e non si può rimproverare a certi musei di aver fatto investimenti anche pesanti. Il problema è che in alcuni casi le tecnologie si sono rivelate presto obsolete o non “così performanti”. Vorremmo evitarlo. Per noi il digitale è un elemento che rientra in un progetto più vasto. Stiamo riallestendo le sale e potenziando i pannelli esplicativi e le forme di mediazione tradizionale, perché sono convinto che la visita classica, quella che si fa leggendo i pannelli esplicativi o con l’audioguida, non è morta. Il digitale deve essere sempre al servizio dell’esperienza della visita e della valorizzazione delle collezioni, aggiunge Girveau. Il dispositivo mobile, lo smartphone, deve apportare un valore aggiunto e mai entrare in concorrenza con l’opera d’arte».

Mostre e musei «virtuali» Con il digitale siamo entrati nell’era delle mostre e del museo «virtuali». Quelli che si visitano seduti davanti al proprio Pc, su Google Arts & Culture o navigando sui siti web di alcune istituzioni culturali, dal Louvre al Dallas Museum of Art, che mescolano immagini, testo e talvolta suoni. Alcuni mesi fa il MoMA di New York ha realizzato e reso accessibile l’archivio digitale delle sue mostre, dalla prima sui postimpressionisti del 1929. Si possono consultare online più di 3.500 mostre. Ma non solo. L’esperienza del «virtuale» diventa sempre più «reale» e può mettersi al servizio della conservazione del patrimonio. Lo scorso dicembre «Sites éternels», una mostra «immersiva» organizzata dal Louvre al Grand Palais, permetteva di «visitare», quasi come se si fosse sul posto, quattro siti Unesco minacciati dalle guerre e dal terrorismo. In Siria, l’antica città di Palmira, il Krak dei Cavalieri, la Grande Moschea degli Omayyadi di Damasco e, in Iraq, il sito archeologico di Dur Sharrukin (Khorsabad), vittime di saccheggi e distruzioni dei jihadisti, sono stati ricostituiti in 3D a partire dalle fotografie scattate sul posto da droni e proiettate a 360 gradi sulle pareti. In alcuni casi si può anche viaggire nel tempo e mescolare l’esperienza ludica alla conoscenza storica.

Dallo scorso dicembre alla Conciergerie di Parigi, che fu residenza dei re dei Francia prima di essere trasformata in prigione di Stato, si può fare la visita con l’«histopad», un tablet attraverso il quale è possibile vedere i luoghi come erano secoli fa (cfr. n. 371, gen. ’17, p. 32). Diversi ambienti, compresa la cella della prigione di Maria Antonietta, sono stati ricostituiti in 3D. «Il nostro obiettivo non è l’aspetto ludico. L’intenzione è piuttosto di far vivere delle emozioni allo spettatore. Aggiungiamo una dimensione multisensoriale a conoscenze scientifiche rigorose», ha spiegato Laure Pressac, responsabile del digitale al Centre des Monuments Nationaux. Con una tecnologia molto simile, al Castello di Beaugency, nella valle della Loira, ci si può persino fare un selfie con il re Francesco I. Si «viaggia nel tempo» anche al Terra Sancta Museum di Gerusalemme. Nel museo ancora in fieri (a fine 2017 aprirà la sezione archeologica con i reperti rinvenuti durante gli scavi in Terra Santa), e più precisamente negli spazi dell’Antico convento della Flagellazione, è già stato allestito lo scorso anno un percorso multimediale immersivo che riporta il visitatore indietro di duemila anni. Un’esperienza virtuale, con proiezioni, luci e suoni, che ripercorre la storia della via Dolorosa, la via Crucis di Gerusalemme, e fa rivivere la passione di Cristo. Il visitatore indossa invece un «visore» di realtà virtuale al Palazzo Pepoli di Bologna (Genus Bononiae) per immergersi nella Bologna del XIII secolo fedelmente ricostituita in 3D, con la consulenza dell’architetto e storico dell’arte Carlo de Angelis e il docente di storia medievale Rolando Dondarini. Migliaia di persone sono già andate a provare l’esperienza «La macchina del tempo», che si tiene fino al 7 gennaio 2018.

Esperienza e conoscenza Il digitale sembra modificare in modo irreversibile il rapporto tra l’opera d’arte e il pubblico. Secondo lo storico dell’arte e scrittore Paul Ardenne le forme di «estensioni dell’opera d’arte» che passano per il 3D e la realtà aumentata, per quanto moderne, rinviano a una nozione antica nella storia dell’arte, quella di «copia»: «Gli uomini hanno sempre copiato in funzione del loro interesse per consentire ad altri uomini di entrare in contatto con un’opera anche senza essere sul posto. Per secoli sono state riprodotte opere in scala 1:1 permettendo di cogliere la materialità dell’oggetto e le sue dimensioni reali. Oggi, anche se si fanno delle riproduzioni in gigapixel, il contatto è mediato dagli schermi. Il museo virtuale, sottolinea Ardenne, è in perfetta continuità con questo fenomeno. I puristi replicherebbero che l’opera d’arte è un oggetto unico e l’unicità implica l’autenticità. Per cui nel contatto con la forma virtuale la dimensione di autenticità si perde. Per quanto mi riguarda ritengo che anche un primo contatto virtuale con l’arte è positivo. Può stimolare la volontà di approfondire, documentarsi, e magari spostarsi fisicamente per compiere la visita». 

Una tecnologia al servizio dell’arte diventa l’alleata dei musei che hanno bisogno di attirare nuovi pubblici: «Ben venga se il digitale può creare familiarità con istituzioni che offrono talvolta codici contraddittori per la nostra sensibilità moderna, rimarca Florence Raymond del Palais des Beaux-Arts di Lille. Ma la proposta digitale deve essere fatta su misura in modo che non renda deludente la realtà del luogo. Sta a noi musei fare in modo che l’esperienza della visita resti più forte di qualsiasi proposta digitale». «Non si può chiedere ai giovani di lasciare lo smartphone all’ingresso del museo, ribadisce Bruno Girveau. Non si può lottare contro un fenomeno, ma si può tentare di canalizzarlo facendo in modo che lo smartphone diventi uno strumento per risvegliare il piacere per il museo, per farlo proprio e condividere con gli altri la propria esperienza. Ma niente, neanche un’immagine ad altissima definizione può sostituire la contemplazione di un’opera». 

Di fronte al digitale per l’Italia la sfida è ancora grande. «Lo scopo di un museo non è soltanto la tutela dei beni culturali e la ricerca. Bisogna trasformare l’esperienza del museo in esperienza educativa per i cittadini. Per i nostri musei, che ereditano un passato in cui la funzione di tutela era dominante, la sfida odierna è di trasformarli in macchine comunicative, osserva Mauro Felicori. Il problema in Italia è che la tecnologia è andata avanti mentre gli storici dell’arte e i portatori di contenuti sono rimasti indietro. I nostri intellettuali soffrono di un vizio accademico. Pensiamo a Wikipedia, solo per fare un esempio, uno strumento che esiste ormai da più di dieci anni: gli storici delle pinacoteche italiane non apportano alcun contribuito rilevante all’enciclopedia online perché tendono a sottovalutare la comunicazione culturale di massa rispetto ai tradizionali approcci accademici».

La tecnologia è una delle chiavi per aprire le porte dei musei a pubblici più vasti: «Sono sicuro che quando riusciremo a rendere i nostri musei più moderni e comunicativi, aggiunge ancora Felicori, conosceremo un’impennata di frequentazione del pubblico, soprattutto dei più giovani». Il digitale, che sia il 3D, la realtà aumentata, che passi per il proprio smartphone o indossando un casco per la realtà virtuale, «quando resta strumentale alla trasmissione dei contenuti, può essere solo positiva. Va temuta soltanto la tecnologia che fa spettacolo di sé, chiusa nel proprio autocompiacimento».
 

Luana De Micco, 05 luglio 2017 | © Riproduzione riservata

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