Maurita Cardone
Leggi i suoi articoliIn un sito archeologico sulle coste del Ghana si riscrive la storia. Non solo quella del Paese dell’Africa occidentale, ma quella di uno dei fenomeni geopolitici del passato con le più profonde conseguenze. Siamo a Osu, un quartiere di Accra, affacciato sull’Atlantico. Qui sorge il Castello di Christiansborg, uno di tre castelli e quasi 30 fortificazioni collettivamente inseriti nel Patrimonio Unesco nel 1979. Oggi aperta al pubblico, la struttura ha avuto negli anni usi diversi, tra cui quello di luogo di detenzione di uomini, donne e bambini destinati a essere venduti come schiavi.
All’interno del giardino del castello e nei terreni perimetrali, dal 2014 si scava per fare luce su aspetti della tratta transatlantica degli schiavi finora rimasti sepolti sotto secoli di storia raccontata unilateralmente. A guidare gli scavi è Rachel Ama Asaa Engmann, direttrice del Christiansborg Archaeological Heritage Project e condirettrice dell’Excavating Knowledge Project. Qui l’archeologa cerca anche di rintracciare quanto la sua storia sia intimamente legata a questi luoghi.
Commercio e tratta degli schiavi
Engmann porta un cognome di origine europea. Non è raro in Ghana. Mossi da interessi diversi, in queste aree per secoli sono arrivati stranieri che hanno finito per ibridare la popolazione locale. Il suo è un cognome danese come il nome del castello, scelto in onore del re Christian IV. Qui, svedesi prima e danesi poi, stabilirono una postazione commerciale per l’acquisizione di oro, di avorio e di esseri umani, poi trasformata in fortificazione nella seconda metà del XVII secolo.
Sulla via che conduce al castello, ci sono diverse case che la popolazione locale identifica ancora con cognomi danesi, inclusa una nota con il cognome dell’archeologa. Questo Rachel Engmann lo aveva sempre saputo: in quella casa vivono ancora alcuni suoi parenti. Quello che, fino a un pomeriggio di oltre 15 anni fa trascorso con un’anziana zia, Engmann non sapeva era che il suo cognome era iscritto sulla parete di una cisterna all’interno del castello.
Quando lo vide per la prima volta la ricercatrice rimase confusa. Racconta: «Ero cresciuta con la convinzione che la mia famiglia discendesse da un missionario cristiano danese di stanza in Ghana. Era quello che mi aveva detto mio padre ed era quello che era stato detto a lui. Ma ecco lì quel nome, Carl Gustav Engmann: era improbabile che il nome di un missionario venisse inciso all’interno del castello. Cominciai quindi a fare ricerche».
Quello che la ricercatrice scoprì è che il suo antenato era stato governatore del Castello di Christiansborg dal 1752 al 1757 e membro del consiglio dell’Organizzazione danese per il commercio degli schiavi. Non solo. Carl aveva sposato Ashiokai, la figlia del capo di Osu. «I matrimoni tra donne locali ed europei al fine di stabilire alleanze politiche erano frequenti», spiega ancora Engmann. Dei tanti ghanesi con cognomi europei, tuttavia, pochi riescono a ricostruire le proprie origini. Quando la ricercatrice si è accorta che il Castello di Osu poteva celare le risposte alle tante domande che la sua storia lasciava aperte, è stato naturale allargare questo processo di archeologia familiare anche ad altri discendenti di unioni tra danesi e Ga, il principale gruppo etnico della zona.
Oggi gli scavi, supportati dal Governo del Ghana e per i quali Engmann ha appena ricevuto un grant della Mellon Foundation, coinvolgono diverse persone del luogo i cui nomi parlano di una pagina di storia ancora da raccontare: la chiamano auto-archeologia. Vuol dire scavare nella propria storia familiare.
Relazioni con gli europei
Racconta l’archeologa: «Abbiamo iniziato con alcuni scavi di prova di pochi metri che si sono rivelati al di sopra delle aspettative e quindi abbiamo proseguito. Al momento abbiamo una collezione di circa 180mila reperti, la maggioranza dei quali sono oggetti di importazione. Abbiamo trovato anche mura e fondazioni di quella che doveva essere una cucina. Siamo arrivati al XVIII secolo e continuano ad affiorare oggetti: è possibile che ci siano materiali anche precedenti alla costruzione del castello».
Tra gli oggetti ritrovati, anche alcune perline in vetro provenienti da Venezia e utilizzate dai danesi per comprare schiavi dalle genti di Osu. Ricostruire la storia, tuttavia, non è facile, ci spiega Engmann. «Le poche testimonianze scritte sono lettere e rapporti che gli uomini di stanza nell’Africa occidentale mandavano a Copenaghen, in cui si discutono principalmente politica e commerci, ma che ignorano l’esperienza africana ed euroafricana. È un punto di vista maschile, elitario ed europeo. Combinare manufatti, storie orali tramandate di generazione in generazione ed etnografia ci consente un approccio più olistico».
Ancora più difficile è risalire gli alberi genealogici quando le persone coinvolte non erano governatori e reali, ma individui di rango più basso come soldati e marinai impiegati nei traffici. «La storia della mia famiglia è una parte del puzzle ma non è certo rappresentativa delle relazioni tra europei e popolazioni locali. Queste unioni avvenivano a tutti i livelli. In questo caso, erano donne libere che diventavano compagne di vita essenziali per gli “stranieri”: li aiutavano a inserirsi, a comprendere gli usi locali, insomma a sopravvivere. Le donne imprigionate invece non avevano scelta, tante subirono violenze».
Il lavoro di ricerca di Engmann e del suo gruppo fa emergere un aspetto ancora poco discusso della tratta degli schiavi, che porta l’attenzione su questioni di classe più che razziali. «Si racconta poco di queste relazioni interrazziali quando si parla della tratta degli schiavi. Queste famiglie euroafricane formavano una importante élite cosmopolita. È solo nel XIX secolo che emergono idee sulla razza e queste identità vengono messe in discussione».
Per quanto doloroso (e forse scomodo) possa essere rispolverare questa storia, per Rachel Ama Asaa Engmann è importante restituire la narrazione all’Africa: «Siamo perlopiù assenti dalla storia e parliamo poco del nostro passato nel mercato degli schiavi. Ma insieme, conclude, stiamo riscrivendo e decolonizzando la storia».
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