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Alessandro Martini
Leggi i suoi articoliLa bellezza intelligente ci guarirà
di Franco Fanelli
«Il Giornale dell’Arte» ha chiesto a una ventina di grandi conoscitori di indicare gli artisti o le artiste su cui punterebbero in base anche, ma non solo (sono pur sempre addetti ai lavori), a predilezioni personali. La rosa va dal Beato Angelico (Giulio Paolini lo considera un vero e proprio faro) a una scommessa (o uno scherzo?), il misterioso duo di Calcutta denominato Range J su cui punta il curatore Francesco Bonami. E adesso, a proposito di curatori, chiamiamone uno per immaginare una Biennale con le opere degli artisti scelti dai nostri superconsulenti.
Come giustificare la compresenza tra il rigore geometrico e optical di Muhannad Shono (indicato da Ilaria Bonacossa) e l’astrazione ibridata da messaggi ispirati dalla blackness di Adam Pendleton (scelto da Valentina Castellani)? Poniamo che l’ipotetico/a curatore o curatrice accetti la sfida. Certo, occorrerà un bravo allestitore: non è facile immaginare il corpo esanime del Marat di David a fianco di Arcangelo Sassolino, con i suoi materiali in perpetua tensione (Sassolino ha ottenuto ben due preferenze).
Ma ormai le biennali d’arte contemporanea danno ampio spazio ad artisti antichi o recentemente scomparsi (qui c’è anche Baruchello, lo indica Massimo De Carlo). Ci vorrà un buon testo in catalogo: tocca sempre tornare al famoso aforisma di Harold Rosenberg, il critico secondo il quale l’arte moderna è un centauro, fatto a metà di opere e a metà di parole. Un grande gallerista, Rinaldo Rotta, disse che l’arte viene comprata più per passaparola che per gusto personale.
Quanto alle biennali e alle documenta, si sa che si tratta di mostre capaci di influenzare il gusto dei collezionisti e dei visitatori e chissà che la nostra ipotetica mostra firmata da un curatore ma frutto di scelte collettive di autentici «arbitri elegantiarum» non sia, nello stesso tempo, lo specchio di un gusto dominante «ai piani alti» e un’indicazione per capire su chi e che cosa converrebbe puntare nell’immediato futuro.
Questa rosa rispecchia la struttura classica di una grande mostra d’arte contemporanea. Ci sono tutti gli elementi ormai classici. Gli outsider (o quasi) di ieri e di oggi: il grande ritrattista cinquecentesco Moroni (tale è secondo Arturo Galansino, che gli dedicherà, con Simone Facchinetti, una mostra alle Galleria d’Italia di Milano); un raffinato pittore come Carlo Benvenuto (classe 1966, sostenuto da Emilio Mazzoli). C’è una significativa presenza femminile e femminista, che va da Suzanne Valadon a Miriam Cahn e Ambera Wellmann.
Ci sono i grandi vecchi: detto di Baruchello, Isgrò ottiene due indicazioni, mentre l’artista Marinella Senatore sta ripensando a Tim Rollins e K.O.S. Nel capitolo riscoperte, ecco Francesco Olivucci, che secondo un raffinato mercante come Carlo Virgilio ha pagato sin troppo l’essere stato attivo durante il fascismo, oppure il napoletano Nino Longobardi, voluto dal suo conterraneo Vincenzo Trione. Potrebbe poi essere interessante riaprire il caso Andrea Appiani (passione di Fernando Mazzocca), che non fu solo un «collaborazionista» del regime napoleonico e in ogni caso sarebbe un’altra di quelle figure inquadrabili alla confluenza tra arte e politica, zona sempre calda nel dibattito contemporaneo.
Ma oltre questa magnifica costellazione, qual è la tendenza dominante nella nostra mostra/fiera, qual è l’indicazione mirata al presente e al futuro? Si allarga il numero di artisti che lavorano, nell’era dello spreco inquinante, con materiali di recupero (Ser Serpas e Alex Ayed, ad esempio). Ma l’ago della bussola va verso artisti appartenenti a culture «postcoloniali», come dicono i curatori: Christopher Kulendran Thomas, di etnia Tamil, una delle più antiche popolazioni dello Sri Lanka; ma anche la peruviana nata nella selva amazzonica Sara Flores o la creola Gala Porras-Kim, ovvero l’arte come rito e terapia. Perché forse più che di curatori c’è bisogno di guaritori. E la terapia può consistere in dosi di «bellezza intelligente»: quella che, secondo Carolyn Christov-Bakargiev, anima le opere della polacca Agnieszka Kurant.
Ilaria Bonacossa, direttrice Museo nazionale di arte digitale, Milano
Sono rimasta folgorata dal lavoro dell’artista saudita Muhannad Shono (Riad, 1977), già presentato ad Artissima a Torino nel 2019 e alla Biennale di Venezia 2022 nel Padiglione del suo Paese, ma sbocciato in un talento capace di giocare con lo spazio sospeso tra fisico e virtuale, tra scultura e installazione. In particolare la sua ultima serie di lavori, presentati al Noor Festival di Riad per la prima volta e reinventati per la prima edizione della Biennale islamica a Gedda, affronta il tema della memoria e della malinconia attraverso fili bianchi, illuminati in ambienti scuri, che si trasformano in raggi di luce con effetti quasi optical e surreali, capaci di creare spazi architettonici monumentali fatti di nulla. In cui la geometria astratta degli schermi lascia spazio a un mondo reale fatto di vuoti, in cui una tessitura «traslucente» parla di passato e di spiritualità in un mondo votato al consumo.
Francesco Bonami, direttore artistico di By Art Matters, Hangzhou, Cina
Il 21 agosto 2021 ho ricevuto un messagio su Instagram che diceva cosi: «Hi, we are Range J, finally we got the courage to send you some of our current works we just finished. Any kind of feedback will be enormous help to us». Di solito non rispondo mai ma il lavoro di questi due misteriosi sorella e fratello di Calcutta toccava qualcosa d’inaspettato dentro il mio oramai incallito spirito di curatore in pensione. Non solo ho risposto al messaggio ma ho finito anche per comprare alcune di queste tempere e ho suggerito Range J ad altre persone. Non so se questi due artisti usciranno e arriveranno mai da qualche altra parte ma anche se restassero lì dove sono hanno già contribuito a disintossicare gli occhi di più di una persona. Range J mi hanno confermato quello su cui riflettevo da tempo: esiste anche nell’arte un equilibrio ecologico. Non tutti hanno bisogno del mondo né il mondo, in particolare quello dell’arte, ha bisogno di tutti. Se il mondo non sciuperà il loro mondo, Range J non sciuperanno certo il nostro. Senza isterismi secondo me andrebbero tenuti d’occhio.
Luigi Carlon, collezionista, Palazzo Maffei, Verona
Seguo con attenzione il percorso artistico di Arcangelo Sassolino per la carica innovativa che coniuga il linguaggio dell’arte con le leggi della fisica. Sono rimasto fortemente colpito dall’installazione «Diplomazija Astuta» realizzata per il Padiglione di Malta alla recente edizione della Biennale di Venezia che ha suscitato molto interesse per essere capace di far rivivere l’opera di Caravaggio, «La Decollazione di san Giovanni Battista», in un’opera contemporanea. È di certo un artista di rilievo internazionale.
Michele Casamonti, collezionista e fondatore Tornabuoni Arte, Parigi
Penso a Emilio Isgrò. Non c’è dubbio che si tratti di una figura ormai storica, tutt’altro che una scoperta, recentemente al centro di un’attenzione crescente. Tuttavia sono fortemente convinto che la sua opera meriti un’ulteriore attenzione per poterne apprezzare appieno l’importanza. La sua «Cancellatura» è stata forse uno degli apporti più radicali delle ricerche del dopoguerra, dalla portata tanto rivoluzionaria quanto quella di Christo e l’occultamento di architetture. Probabilmente il ritorno alla pittura dalla fine degli anni ’70 ha contribuito a ritardare il riconoscimento del reale valore del suo linguaggio.
Valentina Castellani, independent art dealer e docente, New York University-Steinhardt
Seguo e ammiro da tempo il lavoro di Alicja Kwade e Adam Pendleton e ho recentemente avuto il privilegio di visitare i loro studi rispettivamente a Berlino e New York e di iniziare a collaborare con loro. L’installazione di Kwade «Au cours des Mondes», inaugurata lo scorso ottobre in place Vendôme a Parigi (parte di Paris+ Art Basel Sites) ha creato un dialogo intelligente e ironico con uno degli spazi pubblici più belli e carichi di storia della capitale francese. Le 17 sfere in pietra naturale di diversi colori e le scale di cemento hanno proposto una riflessione cosmica e umana allo stesso tempo, con uno spirito ludico che mi ha fatto pensare alla straordinaria «Base del Mondo» di Piero Manzoni. Pendleton si esprime e padroneggia diversi linguaggi: video, installazioni (notevole quella nell’atrio del MoMA di New York nel 2021), pittura, con tele in bianco e nero astratte che talvolta incorporano lettere e testi. Ancorato all’idea del «Black Dada» che investiga la relazione tra astrazione, avanguardia e «blackness», il lavoro di Adam è concettualmente profondo e visualmente originale. La sua prossima mostra al Mumok di Vienna a fine marzo è una delle esposizioni che aspetto con più interesse.
Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice Castello di Rivoli
Agnieszka Kurant (1978) è una giovane artista polacca che vive anche a New York. Mi interessa moltissimo perché le sue opere riflettono sul sapere collettivo dell’era tecnologica e le sue collaborazioni con scienziati di varia natura le consentono di esplorare il funzionamento dell’organizzazione sociale, economica e culturale della nostra era. Lavorando sui metodi con i quali la statistica predittiva (AI) applicata ai gusti e alle scelte delle persone può produrre un ritratto del mondo odierno turbolento e mutevole, Kurant realizza opere molto belle come i dipinti a cristalli liquidi «Conversions» (2019-21) i cui colori cambiano proprio come fosse un ritratto delle emozioni collettive del pianeta.
Michele Coppola, Executive Director Arte Cultura e Beni Storici Intesa Sanpaolo e Direttore Gallerie d’Italia
Questa è per me una risposta obbligata! Un artista che cattura molto la mia attenzione per quanto sta facendo a livello globale grazie a una nuova forma di arte pubblica è JR. Mi piace vedere come il suo estro e la sua sensibilità permettano con semplicità di parlare a tutti affrontando temi complessi, anche drammatici. Però voglio dire che guardo con simpatia e ammirazione anche a Emilio Isgrò. Di fronte all’abitudine di oggi di «aggiungere», la sua intuizione di «sottrarre» per far emergere l’essenziale è sinonimo di un’intelligenza artistica che mi colpisce e che apprezzo.
Massimo De Carlo, gallerista, Milano-Londra
Colgo l’occasione per rendere omaggio a Gianfranco Baruchello (1924-2023), che ci ha lasciati poco tempo fa. Gianfranco era un pensatore irrequieto e pungente, eppure dotato di una sua tranquillità esemplare, di chi ha maturato gli strumenti dell’autorevolezza in giovane età e li ha governati abbastanza a lungo da essere pronto a condividerli con tutti, alti e bassi, locali e globali, giovani e vecchi. Il dialogo, lo scambio, il tentativo di decodificare o forse meglio di registrare gli intrecci, le intersezioni, i sentieri complicati del pensiero umano sono stati la cifra della sua arte, ma anche ciò che ha animato la sua insaziabile curiosità per gli esseri umani. Per me è stato un vero piacere, e un onore, conoscerlo, lavorare e imparare da lui negli ultimi 10 anni. La galleria gli dedicherà una mostra nel 2024 nella sede di Milano, per rendere omaggio al suo lavoro e condividerlo con il nostro pubblico.
Domenico Filipponi, art Advisor, Milano
Seguo da anni il lavoro di Arcangelo Sassolino (1967) e sono sempre stato colpito dal suo modo di trattare la materia così come dalla sua capacità di affrontare e coniugare gli aspetti tecnico scientifici della realizzazione delle opere con quelli più afferenti alla sfera interiore ed emotiva, sempre con rimandi alla Storia nella sua accezione più alta e più ampia: la storia dell’Arte, della Natura, della Scienza, in una parola, dell’Uomo. La tensione fisica delle sue opere scatena una tensione emotiva che tocca le corde più intime, personali e per questo diverse in ciascuno che osserva e si confronta con i suoi lavori.
Arturo Galansino, direttore Fondazione Palazzo Strozzi, Firenze
Sono appassionato di maestri di grande qualità ma che non hanno avuto il successo globale che meritano, come il grande bergamasco Giovan Battista Moroni (1524-78/79) di cui ho già curato due mostre a Londra e a New York. La prossima sarà con Simone Facchinetti alle Gallerie d’Italia di piazza Scala a Milano. Chiuderà da dicembre l’anno di Brescia Bergamo Capitali italiane della Cultura 2023 e sarà la più grande mostra mai fatta in Italia, anni dopo quella tenuta a Bergamo nel 1979. Credo che Moroni non tema il confronto con nessun grande artista della sua epoca, a partire dal suo maestro Moretto da Brescia, ma neanche con contemporanei illustri come Lorenzo Lotto o lo stesso Tiziano, sua tradizionale «antitesi» secondo la storiografia. Mostreremo finalmente l’internazionalità di questo straordinario e rivoluzionario artista, capace di rappresentare la realtà con tecnica pittorica unica e di penetrare la psicologia umana in modo assolutamente moderno.
Francesca Lavazza, board member Lavazza Group e presidente Castello di Rivoli
In novembre alla Clearing Gallery di New York ho visitato la personale dell’artista peruviana Sara Flores. Nata nel 1950 in un piccolo insediamento Shipibo nella selva amazzonica, è una delle artiste rappresentate dallo Shipibo Conibo Center di New York, un’organizzazione che da anni si dedica alla difesa e divulgazione della cultura Shipibo Conibo. La tecnica dell’artista si esprime attraverso il potere curativo del kené, una sorta di «medicina del design» in grado di ripristinare e creare equilibrio. Il tracciato delle opere di Sara Flores nasce dalle lunghe ore passate da bambina sotto la tenda anti zanzare, uno schema ipnotico ora arricchito da colori e forme ancestrali. Osservando i suoi quadri si può scoprire una nuova matrice cosmica, una rete in grado di tracciare un percorso di interconnessione profonda con tutto ciò che ci circonda. Un labirinto in cui perdersi per ritrovarsi. Il risultato per me è stato un invito paziente ma impellente a riconsiderare il rigore dell’arte e la sua ancestrale forza salvifica. Uno struggente appello al salvaguardare le identità indigene per conservare la forma più pura dell’energia della terra.
Francesco Manacorda, curatore, Londra
Christopher Kulendran Thomas (1979), un artista di origine Tamil, collega la storia del conflitto recente e quella coloniale dello Sri Lanka con i meccanismi di narrazione, distribuzione e manipolazione dell’informazione nell’era digitale in cui siamo immersi. Le domande che emergono dalle sue installazioni video coinvolgono la definizione di cosa sia l’umano in relazione all’intelligenza artificiale e quanto l’impulso coloniale del modello occidentale sia attivo anche nel modo dell’arte di oggi.
Fernando Mazzocca, docente universitario, Milano
Si tratta di una domanda un po’ spiazzante perché le mie predilezioni vanno verso alcuni artisti che ho avuto occasione di affrontare più approfonditamente. Oggi il personaggio che più mi coinvolge è un grande pittore, noto ma tutto sommato trascurato, dal sistema delle mostre, come Andrea Appiani (1754-1817). Milano, la città dove è vissuto e che ha visto la sua affermazione come protagonista tra gli anni finali della prima dominazione asburgica e quelli rampanti del regime napoleonico, non ha mai pensato di dedicargli una mostra. Eppure la sua fama rimane per sempre consacrata dal bellissimo monumento che Thorvaldsen gli ha eretto a Brera, celebrandolo come il pittore delle «Grazie».
Emilio Mazzoli, gallerista, Modena
Ho lavorato solo con artisti primari, inutile elencarli perché sono nella Storia, nei musei, nelle collezioni private e, cosa molto più importante, sono nell’immaginazione di chi ama l’arte e non solo. L’artista che ora abita i miei sogni è Carlo Benvenuto (1966), sofisticato, silenzioso, implacabile tiratore scelto. Il sistema dell’arte lo accoglie, ma lo teme, perché ha un percorso anarchico, autonomo e come me non conosce il compromesso. Con le sue opere di tranquilla potenza mette in discussione le architetture deboli che governano il mondo dell’arte, mondo che vorrei si desse una bella svegliata!
Giulio Paolini, artista, Torino
Sono tanti (tutti) i nomi degli artisti che affiorano alla memoria... Se dico «tutti» non è per sottrarmi al «gioco pericoloso» imposto dalla domanda, ma perché è mia precisa convinzione che la scena dell’arte sia costituita (da sempre, senza ordine di tempo) dall’assieme di immagini che si alternano in una rappresentazione dove ogni autore si annuncia come protagonista assoluto. È una «nostalgia» senza date che nei limiti di spazio convenuti non posso enumerare per esteso, né posso promuovere un nome su tutti. Sarei tentato di dire il Beato Angelico che ho felicemente «incontrato» nella cella del Convento di San Marco a Firenze dove il suo affresco «Noli me tangere» ha rinnovato la mia ammirazione incondizionata. Già in Una lettera sul tempo, pubblicata in occasione della mia mostra alla Galleria Notizie di Torino nel 1968, scrivevo: «Invoco, nel mio lavoro, la trasparenza etimologica delle opere di Beato Angelico, Johannes Vermeer, Nicolas Poussin, Lorenzo Lotto, Jacques-Louis David». Ancora oggi sottoscrivo le parole di allora.
Chiara Parisi, direttrice Pompidou-Metz
Chi è quest’artista a cavallo tra il XIX e il XX secolo? La storia di Suzanne Valadon (1865-1938) e la traiettoria della sua vita sono spesso descritte attraverso il prisma della duplicità, una sagoma inseguita dalla sua ombra, trasportata da sistemi di binarietà che oppongono l’epoca che l’ha formata a quella che ha forgiato, la modella di culto e l’artista sorprendente, l’adolescente curiosa, la donna responsabile o l’icona disinvolta. Per cogliere l’ardore di questo essere unico, basta osservare i suoi dipinti tra libertà sessuale e visione creativa. Come la «Chambre Bleue» (1923), moderna Olympia che assume le sembianze di un’odalisca che legge e fuma, non proprio lasciva e per nulla svestita, poco preoccupata dello sguardo che le viene rivolto. O ancora «Adam et Ève» (1909), dove prende un soggetto biblico per rivelare il primo nudo maschile sotto il pennello di una donna.
Davide Quadrio, direttore Mao, Museo d’Arte orientale, Torino
L’artista che in questo momento frequento più sovente nei miei pensieri e progetti è Gala Porras-Kim (1984). Artista americana creola, tra Sud America e Corea, poetessa della vita e della morte, lavora tra soggetti museali rispondendo a questi ultimi con gesti, rituali che li fanno connettere con la loro essenza più vera, la loro storia prima di essere raccolti ed esposti in musei del mondo occidentale. Verace sciamana della scienza della conservazione, guarda al museo come un luogo potenziale di scoperta dell’essenza più vera degli oggetti che tocca con il suo sguardo, e a cui dona nuova vita per noi vivi e per i morti, spiriti e fantasmi di luoghi lontani che non appartengono al nostro mondo né vogliono appartenervi.
Enea Righi, collezionista, Bologna
Seguo due artisti diversi fra di loro nella forma, ma simili nel processo creativo. Per Ser Serpas (1995) che usa oggetti trovati o maltrattati, e Alex Ayed (1989), che usa oggetti scartati e trovati nei suoi viaggi. Il denominatore è la visione finale; l’installazione diventa racconto ed è quasi più importante del singolo pezzo. Questi oggetti, carichi di una storia propria, riconfigurati nella loro funzione e caricati di assemblaggi poetici a volte sorprendenti, scatenano una nuova energia nello spazio e nella fruizione.
Alberto Salvadori, direttore Fondazione Ica, Milano
L’artista che in questo momento raccoglie il mio particolare interesse è la svizzera Miriam Cahn (1949), attiva dagli anni ’70. Il suo lavoro è per me diventato nel corso degli anni un riferimento per coerenza e capacità di racconto di una personalità integra e inafferrabile. Nel lavoro di Cahn sono presenti da sempre i «geni» della vita presentati senza mediazioni e senza alcun bisogno di piacere agli altri e senza mai assecondare alcuna necessità di politicamente corretto nell’esprimere il proprio pensiero. La sua integrità mi ha sempre attratto.
Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, presidente Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino
Nel corso degli ultimi anni ho seguito con molto interesse il lavoro di Ambera Wellmann (1982) per la coerenza con cui ha sviluppato una pratica pittorica in grado di far dialogare la Storia dell’arte e prospettive femminili e femministe. I suoi quadri ospitano sempre esseri umani, a volte anche non umani, dai contorni sfumati, come se i loro incontri romantici e sessuali ne modificassero le sembianze. Scompaiono gli individui a favore di una collettività. In questo senso, il suo lavoro parla molto di intimità e fragilità, ma anche di collaborazione e trasformazione. Presenteremo il suo lavoro in una personale a Torino in aprile.
Marinella Senatore, artista, Roma
In questo momento ho un rinnovato interesse per Tim Rollins and K.O.S. (Kids of Survival): mi sembra non solo di grande ispirazione, ma è incredibilmente attuale, traccia una via ancora da esplorare in tutte le sue potenzialità e ripercussioni sulla comunità.
Vincenzo Trione, preside Facoltà Arti e Turismo, Università Iulm, Milano
Nino Longobardi (1953) è tra i primi artisti che ho incontrato e frequentato. Nel mio studio milanese, ho conservato tre suoi bozzetti ispirati a Lazzaro: grovigli di linee che compongono volti e sovrastano ritagli di giornale, preludio a un trittico che espose nella prima mostra da me curata, nel 1993, alla Casina Vanvitelliana di Bacoli. Da allora continuo a interrogare Nino Longobardi, tra gli ultimi umanisti. Inserito nella Storia dell’arte italiana, è profondo conoscitore della disciplina del fare con le mani, sapiente creatore di pitture, di sculture e di affreschi, legato alla tradizione della grande ritrattistica occidentale. E, insieme, guarda sempre allo sperimentalismo delle neoavanguardie; si riferisce costantemente alla strategia del prelievo di matrice beuysiana; recupera motivi del poverismo; è in sintonia con il neoespressionismo europeo degli anni Ottanta. Da un lato, una disciplina antica: il rispetto dell’equilibrio formale, la tutela dell’ordine compositivo. Dall’altro lato, un sottile gusto per le decostruzioni, per le interruzioni visive. Longobardi è archeologo e, al tempo stesso, profanatore. Lontano da ogni anacronismo, si richiama a iconografie classiche, che poi decostruisce, defigura: profana, appunto. Allestisce maestose costruzioni, abitate da corporeità scarnificate, ridotte, semplificate. Riconduce le anatomie a minimi tracciati; spesso, si concentra solo sul teschio. Le sue opere, negli anni, sono diventate sempre più essenziali: sembrano fatte quasi-di-nulla. La complessità figurale è stata come spogliata. In alcuni momenti, con rara maestria, Longobardi sembra scolpire con il colore: esegue polittici solenni, occupati da fitti strati cromatici, al di sotto dei quali si intravedono, come in una Sindone moderna, lineamenti appena accennati. L’opera d’arte, per Nino Longobardi, non è luogo di un naufragio in un vuoto concettualismo, ma esercizio poetico struggente. Pratica talvolta epica. Testimonianza di necessità troppo umane, impossibili da eliminare.
Carlo Virgilio, gallerista, Roma e Londra
Da oltre quarant’anni, la Galleria Carlo Virgilio & C. propone opere di grandi maestri dell’arte neoclassica o più antica; senza trascurare il Novecento e il contemporaneo. Epperò, il nostro impegno (un dovere) è anche rivolto ad artisti meno noti, dimenticati per le vicissitudini più varie e non per pochezza d’arte. In questa prospettiva, nella prossima edizione di Miart a Milano, saremo presenti con una serie di grandi cartoni per affresco, opere dell’artista forlivese Francesco Olivucci (1899-1985), punta avanzata dell’arte novecentesca tra Faenza, Forlì e Parma, territori dove l’attività artistica fu sempre di altissimo livello. Sono cartoni per la decorazione della sala maggiore della Prefettura di Forlì. Committenza pubblica del 1937 ca, dunque fortemente ideologizzata, nonostante che l’artista non fosse allineato (da incisore, più avanti, si dedicherà a illustrare storie e fatti dei partigiani). Quegli affreschi non esistono più (dopo pochi anni furono distrutti per motivi ancora da accertare) e i cartoni e alcune foto d’epoca sono le sole testimonianze rimaste. Naturalmente, presentare opere come queste pone un problema di opportunità: arte di regime? Non sarebbe meglio la «damnatio memoriae»? Tuttavia, l’alta qualità colloca Olivucci nel solco della straordinaria tradizione, tutta italiana, dell’affresco. È necessaria, dunque, una loro lettura con gli strumenti della Storia dell’arte, cioè priva di eccessi ideologici. D’altronde, ci conforta in questo, per dirla con Lukács o Jean Clair, quanto avvenuto con altre correnti artistiche «compromesse» come l’Espressionismo, in origine accomunato al nazismo, o il Futurismo, intimo del fascismo. Oggi appaiono come due monumenti formali nella storia dell’umanità. D’altronde, il gallerista informato anticipa i ragionamenti, percorre sentieri impervi e butta un sasso nello stagno del conformismo. Mostre come quella di Olivucci offrono dunque l’occasione, ci pare, per riconciliarsi con il bello atemporale, metastorico (e assieme storicizzato). Ben sapendo che le ideologie passano e la qualità artistica, quando c’è, ci sopravvive.

Un cartone di Francesco Olivucci per la decorazione della sala maggiore della Prefettura di Forlì. Cortesia Galleria Carlo Virgilio

«Senza titolo» (1983) di Nino Longobardi © BCS Beni Culturali Standard

Tim Rollins and K.O.S.

«Seance Etiquette» (2020) di Ambera Wellmann

«Ereignisich» (2014) di Miriam Cahn. Cortesia dell’artista, Galerie Jocelyn Wolff, Paris, and Meyer Riegger, Berlin/Karlsruhe

«fucked layabout forgiving» (2022) di Ser Serpas. Cortesia Galerie Barbara Weiss

«An index and its settings» di Gala Porras-Kim

«Chambre Bleue» (1923) di Suzanne Valadon

«Noli me tangere» (1442) di Beato Angelico
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