Bianca Bozzeda
Leggi i suoi articoliPresentato nell’ambito delle Giornate degli Autori della 80esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia ed entrato nella collezione del Museo del Novecento, il nuovo film di Yuri Ancarani (Ravenna, 1972) «Il popolo delle donne» affronta il tema della violenza degli uomini sulle donne attraverso le parole di Marina Valcarenghi, prima psicoanalista italiana ad essere entrata in contatto con i detenuti per reati di violenza sessuale già trent’anni fa. L’analisi del fenomeno in preoccupante crescita prende la forma di una lectio magistralis ambientata nel Cortile Legnaia dell’Università Statale di Milano.
Ancarani, com’è nato l’incontro con Marina Valcarenghi?
Ho conosciuto Marina durante le riprese di «Atlantide» (2021, Ndr) tramite un amico in comune. Le nostre conversazioni sono state molto utili per capire il modo di pensare di un ragazzo emarginato come Daniele, il protagonista del film. Tra i vari argomenti, si parlava del gruppo, del branco, di violenza, di atteggiamenti maschili. Marina spiegava in maniera molto semplice: da lì è nata la volontà di dare a tutti la possibilità di ascoltare le sue parole.
E quello con l’artista Caterina Barbieri, compositrice della colonna sonora del film?
Quando sono in montaggio ascolto molta musica. Volevo trovare un brano in grado di mantenere un ritmo che accompagnasse lo spettatore in un atteggiamento riflessivo. È qualcosa a cui non siamo più abituati. Ho ascoltato molto l’album «Fantas Variations» di Caterina Barbieri, e mi sono innamorato di «Fantas For Electric Guitar» suonato assieme a Walter Zanetti. È il brano perfetto per la colonna sonora del film.
Lei dice spesso che sono «i luoghi pericolosi» ad attirarla e a ispirare il suo lavoro. Anche «Il Popolo delle donne» è un luogo pericoloso: non soltanto per il tema che affronta, ma anche perché è un lavoro sulla violenza sulle donne girato da un uomo. È la preoccupazione per la sempre maggiore violenza sulle donne ad aver dato origine al film, oppure la messa in discussione di sé?
È da tempo che rifletto al tema della violenza maschile sulle donne, probabilmente il problema principale d’Italia. Credo di aver iniziato a pensare di fare un lavoro su questa tematica mentre realizzavo «San Siro» (2014, Ndr), luogo di intrattenimento dove tutti vanno come fosse un luogo di culto. Lì ho fatto un’overdose di mascolinità. Poi con Marina c’è stato il colpo di fulmine. Per quanto riguarda la pericolosità del tema, credo che un grande pericolo di oggi sia la comfort zone. Il comfort non mi interessa: voglio che i progetti siano delle sfide, e questo tema mi è sembrato una sfida molto interessante. Il film è il frutto della ricerca di una vita di Marina, e abbiamo pensato a questo lavoro insieme. Era importante creare un gruppo eterogeneo che si occupasse di questo tema.
Nel film, Marina Valcarenghi parla dell’«avanzata della squadra femminile» e della «reazione isterica» degli uomini di fronte alla sempre maggiore presenza di donne in posizioni di rilievo, sia nell’ambito familiare sia in quello professionale. Queste riflessioni hanno avuto un impatto sul modo in cui lavora?
Da quando ho visto il film, e forse sono la persona che lo ha visto più volte, mi accorgo ogni giorno di certe dinamiche, le osservo, le studio, e se sono io ad aver fatto un errore, mi correggo.
C’è un passaggio in cui Marina Valcarenghi spiega come «la violenza maschile sia direttamente proporzionale all’insicurezza femminile»: alla fine del film, però, si direbbe piuttosto che la violenza maschile sia direttamente proporzionale alla propria insicurezza, e non a quella altrui. Ci sono state delle reazioni da parte del pubblico a questo proposito?
Il film in sintesi propone di scardinare i nostri stereotipi, da entrambi i sessi: anche i passaggi che possono apparire negativi, sono un grande invito a partecipare attivamente all’analisi e a reagire. Non è un film che cerca il consenso, ma invita a sollevare una riflessione comune.
In una delle ultime scene lei entra in campo per «guidare» la videomaker in modo che non vada a sbattere contro la sua telecamera. C’è una certa onestà e trasparenza nell’aver mantenuto questa scena nel montaggio: potrebbe essere interpretata come l’ennesima intrusione maschile nell’azione e nel lavoro di una donna. È stata una scelta consapevole?
È un semplice gesto da set, un fuoriscena che ho voluto mantenere per lasciare spazio alla libera interpretazione.
La distribuzione del film, a cura di Barz and Hippo, inizierà il 13 novembre. Come pensa reagiranno le sale italiane?
Sono entusiasta di questa opportunità. Il film è prodotto da Dugong Films con il sostegno del Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano e di Acacia (Associazione Amici Arte Contemporanea Italiana, Ndr). È un film semplice nella composizione visiva, girato in economia. Sono sicuro che questa semplicità verrà premiata e il film godrà di una buona visibilità.
In questo momento rifletto molto sugli scioperi legati al rapporto tra scrittura cinematografica e intelligenza artificiale che si sono verificati negli Stati Uniti. Ma di quale scrittura parliamo? Il cinema americano non ha più scrittura, i temi sono sempre uguali, girano per la maggior parte attorno alla figura dell’uomo vincente. Molti film d’azione potrebbero essere benissimo scritti dall’intelligenza artificiale…
Un progetto così diverso come «Il Popolo delle donne», invece, non può essere scritto dall’intelligenza artificiale, perché ci vuole una vita intera e un’esperienza come quella di Marina Valcarenghi. Credo sia un film che tutti dovrebbero vedere.
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