Olga Scotto di Vettimo
Leggi i suoi articoliNelle sale della sede napoletana della Thomas Dane Gallery, i lavori di Marisa Merz (Torino 1926-2019), esposti fino al 23 marzo, sorprendono come apparizioni improvvise e inaspettate (talvolta sistemate anche lateralmente, dietro il varco di una porta) che attendono solo di essere «viste». Abitanti eterei dello spazio, misteriosamente familiari, le opere disposte negli ambienti vengono avvertite come presenze positive, così come dichiara Douglas Fogle, nell’incipit del testo che accompagna la mostra: «In un certo senso, si potrebbe dire che il lavoro di Marisa Merz è infestato da fantasmi. Non si tratta degli oscuri fantasmi degli incubi gotici, quanto piuttosto dei resti scintillanti della presenza di oggetti nel palinsesto di spazio e tempo. Sono paradossalmente immateriali, eppure completamente presenti».
Piccole teste modellate in argilla cruda, disegni, sculture, pittura, e, ancora, rame, oro, carboncino testimoniano innanzitutto la centralità del volto, quello femminile, che cadenza la produzione dell’artista torinese a partire dagli anni Settanta. Unica eccezione in mostra è una scultura triangolare in paraffina, attraversata da fili di rame e poggiata su un elegante tappeto. Misteriosa, spesso senza titolo, come anche senza data, l’opera di Marisa Merz, maneggia l’incertezza del tempo, ponendosi all’interno di una salda tradizione, che contribuisce a rendere il suo lavoro, talvolta imperscrutabile, mai ignoto; questo, che sembra guardare tanto all’arte bizantina quanto al primo ‘900, si pone nel solco di una tradizione formale che non prevede discontinuità.
Leone d’oro alla carriera nel 2013 alla Biennale di Venezia, (unica donna che partecipa alla celebre mostra dell’Arte povera ad Amalfi nel 1968) scelse di riflettere sullo spazio domestico, femminile, con immagini che esprimono silenzio, circospezione, delicatezza e che mostrano una natura quasi prefigurale. La personale alla Thomas Dane Gallery riporta a Napoli la ricerca dell’autrice torinese dopo la mostra che nel 2007 le dedicò il museo Madre. «Non sembra esserci connubio migliore del lavoro di Marisa Merz e della città di Napoli. È come se il suo regno bizantino di materiali elementari, argilla, rame, oro, bronzo, cera, fosse stato creato per abitare e insediarsi nei meandri delle strade e nelle edicole votive d’angolo della città antica. O forse Napoli stessa è stata in qualche modo costruita e ricostruita per ospitare l’opera di Marisa Merz?», recita ancora il testo che accompagna la mostra.
Inevitabile domandarsi, pertanto, in questo preciso contesto, e cioè negli spazi che nell’800 furono la residenza di Beniamino Ruffo principe di Calabria e successivamente dimora di molti intellettuali (tra cui il filosofo Benedetto Croce e lo scrittore polacco Gustaw Herling-Grudziński), se i fantasmi a cui fa riferimento Fogle, non possano corrispondere alla «Bella ‘mbriana», lo spirito benefico che, nella cultura letteraria e nell’immaginario napoletano, abita le case e le protegge.
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