Arianna Antoniutti
Leggi i suoi articoliCuratore, registrar, comunicatore, educatore: sono le quattro professioni museali cui la Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali, fino a gennaio 2023, dedica il percorso formativo «Toolkit for museum. Whose heritage?». La Fondazione Scuola (istituto internazionale per la formazione, la ricerca e gli studi avanzati, nell’ambito delle competenze del MiC), in collaborazione con International Council of Museum (Icom) Italia, ha promosso il corso multidisciplinare rivolto a professionisti e neoprofessionisti dei musei.
In partenariato con le migliori istituzioni museali italiane, il programma formativo è strutturato in masterclass su tematiche di interesse comune, e in quattro diversi percorsi di formazione specifici, i toolkit, per ciascuna funzione museale. A ogni professione è abbinata un’istituzione di riferimento, in cui si svolgono gli incontri: le Gallerie degli Uffizi di Firenze per i curatori, le Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma per i registrar, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino per gli educatori, il Museo Egizio di Torino per i comunicatori. La Reggia di Caserta, infine, ospita le masterclass.
Iniziato in ottobre, al corso sono iscritti 60 partecipanti, selezionati fra le 668 candidature pervenute: un numero elevato che, secondo Vincenzo Trione, 50 anni, presidente della Fondazione Scuola e preside della Facoltà di Arti e turismo Iulm di Milano, indica quanto sia necessaria la formazione dei professionisti del patrimonio culturale.
«Il corso, spiega Trione, è nato da una riflessione che portiamo avanti da tempo, ovvero il bisogno di un dialogo serrato fra polo del lavoro e mondo della formazione, due ambiti che, nel nostro Paese, sono troppo spesso distanti. Da un lato l’Italia ha un numero elevato di studenti che scelgono corsi di laurea legati alle “humanities”, ma il paradosso, dal punto di vista degli spazi occupazionali, è che non trovano poi sbocchi adeguati nel settore dei beni culturali. Probabilmente, una delle ragioni è che il nostro sistema non è adeguato ad accogliere queste figure. Altra istanza alla base di “Toolkit for museum” è individuare figure professionali delle quali si avverte in questo momento un forte bisogno nel sistema del patrimonio culturale. È come se ci si muovesse a due velocità, da un lato il museo sa che occorrono nuove professionalità, dall’altro i profili previsti negli organigrammi dei musei sono fermi al ventennio scorso e nei concorsi sono richieste le consuete figure professionali: restauratori, architetti, storici dell’arte. Ma, lo dico da docente di Storia dell’arte, un museo non è soltanto questo. Il museo ha bisogno di tante altre figure, come l’antropologo, il sociologo, il comunicatore, il curatore, il registrar, l’educatore. Sono funzioni cruciali, che devono essere in grado di operare in reciproco ascolto, e con una visione d’insieme».
Come stanno cambiando le figure professionali museali, anche alla luce della nuova definizione di museo elaborata dall’Icom, le cui parole chiave sono inclusività, diversità e sostenibilità?
I musei si configurano sempre più come straordinari dispositivi che fanno convivere e interagire differenze. Da questo punto di vista, la ridefinizione offerta dall’Icom va esattamente nella direzione di potenziare, quanto più possibile, l’integrazione del museo con le comunità locali e con i contesti, in una dimensione umana, antropologica, sociale. Credo tuttavia che nella nuova definizione di museo ci sia un vuoto: la non sufficiente attenzione rivolta alle tematiche digitali. Soprattutto dopo la pandemia, non è possibile pensare di rimuovere la centralità del digitale, anche in ragione dell’importanza che esso occupa in un’ottica di democratizzazione dei contenuti di un museo. È su questo tema, che ritengo di enorme portata, che si colloca la figura del comunicatore. Il mio timore è che molto spesso, in ambito museale, la comunicazione venga affrontata in maniera troppo generalista. Essa, in un museo, deve essere invece affidata a professionisti che abbiano contezza del patrimonio, della storia e della missione dell’istituzione in cui operano. Comunicare l’arte non significa comunicare tout court. I canali tradizionali sono ormai del tutto insufficienti, e l’utilizzo dei social media riveste una funzione fondamentale, anche perché consente di mostrare ciò che è inaccessibile allo stesso visitatore fisico: laboratori di restauro, archivi, depositi. Non dimentichiamo difatti che la maggior parte dei grandi musei espone circa un decimo del proprio patrimonio. Se ci fosse una politica attenta anche al digitale, sarebbe possibile raccontare, in maniera sistematica, anche ciò che è non è visibile nelle sale espositive.
La Carta nazionale delle professioni museali di Icom definisce il registrar come «responsabile del servizio prestiti e della movimentazione delle opere», ma, al di là delle necessarie competenze su restauro e movimentazione, si tratta di una figura con un ruolo ben più complesso.
La complessità del lavoro del registrar risiede anche nella sua capacità di intrecciare aspetti conservativi con altri prettamente legali. È una professione assolutamente fondamentale che ha bisogno non solo di essere regolamentata, ma anche maggiormente conosciuta. Mentre il restauratore, ad esempio, ha all’interno del museo un proprio status, alcune funzioni sono ancora viste come ancillari. Ma, come appunto il registrar, non lo sono affatto, anzi vanno disciplinate, lavorando su specifiche competenze. Vorrei che si definissero profili molto chiari, con percorsi di formazione altrettanto ben delineati. Il curatore, ad esempio, soprattutto nel sistema dell’arte contemporanea, è diventato una figura centrale, mentre in Italia, in ambito museale, a differenza del resto dell’Europa e del mondo, occupa un ruolo ancora secondario. In realtà il curatore incarna la stessa anima del museo, non esiste museo se non si fonda sulla ricerca. Il curatore è colui che conosce il patrimonio museale, conduce ricerche in archivio, studia le opere e la loro collocazione all’interno della collezione. È, per così dire, il regista che deve rapportarsi con le altre figure. Anche in questo caso, riconoscere la centralità del curatore, credo sia un preciso dovere del museo del XXI secolo.
Per quanto riguarda il responsabile dei servizi educativi, avete scelto di riservare grande attenzione al tema della mediazione culturale.
Anche il profilo del mediatore artistico e culturale, in Italia, non è ancora adeguatamente sviluppato. Va detto però che esistono, in tale ambito, realtà che svolgono un lavoro assolutamente prezioso, penso al Museo Egizio e alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino. Il museo deve sempre aiutare il pubblico alla comprensione del proprio patrimonio. Possono essere impiegati a questo scopo strumenti informativi, come i pannelli didattici, ma anche figure professionali che accompagnino il pubblico durante la visita. C’è poi il tema dell’inclusività, e penso non solo ai visitatori con vari tipi di disabilità, ma anche, ad esempio, ai bambini. Nel modello inglese, spesso citato a tale proposito, l’attenzione alla formazione dei bambini diventa primaria, nel segno di ciò che i Romani chiamavano «docere delectando».
Il 2 dicembre presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, nell’ambito del toolkit rivolto ai servizi educativi, si terrà un focus dedicato alle famiglie migranti.
Questo, più che un tema, è una precisa battaglia civile e politica da affrontare. Non si può più parlare di pubblico, ma di tanti pubblici diversi. Un museo deve essere capace di rivolgersi a persone di differente sensibilità e differenti origini culturali, l’attenzione ai migranti o ai cittadini italiani di seconda generazione è assolutamente cruciale. Nessun pubblico può essere dimenticato.
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