Louisa Buck
Leggi i suoi articoliÈ scomparsa a Londra all'età di 87 anni l'artista anglo-portoghese, figura chiave del collettivo The London Group e protagonista alla Biennale di Venezia di quest'anno. In questa intervista del 2003 racconta la sua mostra di litografie alla Marlborough Gallery di Londra e ripercorre il suo processo creativo fra perizia tecnica e gioco poetico.
I dipinti introspettivi e sovversivi di Paula Rego le hanno fatto conquistare un pubblico vasto ed entusiasta in tutti i campi artistici, da Charles Saatchi, che è uno dei suoi più fedeli mecenati e ammiratori, ai «trustees» della National Gallery che l'hanno nominata prima artista in residenza nel 1990 commissionandole un dipinto murale «Crivelli’s Garden» nel ristorante del museo. Oggi alla soglia dei settant’anni Rego è di gran lunga troppo giocosa e imprevedibile per assumere il ruolo di «grande dame», ma non è nemmeno una «naïve». I suoi quadri, perché di quadri si tratta anche se dal 1994 lavora esclusivamente a pastello, sono complessi e sofisticati. Nello spirito degli amati surrealisti con un tocco di folklore dal suo Paese natale, questa maestra della narrazione obiqua rende il suo mondo assolutamente plausibile grazie a uno sguardo pittorico rigoroso e a una pittura cesellata. L’artista non dorme sugli allori, ma allunga instancabilmente il passo per porre nuove sfide a sé stessa e allo spettatore.
Una parte importante di questa nuova mostra s’ispira a Jane Eyre. Che cosa l’ha portata a questa storia?
È la storia più bella di tutti i tempi! Mi sono avvicinata a Jane Eyre grazie al meraviglioso libro Il grande mare dei sargassi (1966) di Jean Rhys. Se nel libro di Rhys la donna è sempre vittima, Jane Eyre s’impone per la sua intraprendenza e si prende cura di sé stessa molto bene. Gli altri la trattano così male, davvero, malissimo.
Lei presenta un mondo essenzialmente femminile, ma posa uno sguardo affettuoso sui suoi uomini, che seppur mostruosi, possiedono sempre una certa vulnerabilità.
Mi piace renderli vulnerabili per poterli controllare meglio [ride] ma tutto questo si concretizza nelle immagini, distanziandosi da quello che facciamo nella vita.
Molte delle opere presentate sono litografie, una tecnica appresa alla Slade School of Fine Art. Che cosa l’ha spinta a riprenderla?
Ho fatto incisioni, ma cercavo qualcosa di più. Fare litografie è un po’ come disegnare, lavorare sulla pietra è straordinariamente eccitante e sensuale.
Lei ha realizzato molte stampe nel corso della sua carriera: che cosa la attrae di questo medium?
Le stampe sono una grande liberazione perché si possono realizzare molto rapidamente. Oggi come oggi mi piace avere qualche stampa in corso. Prima facevo solo una cosa alla volta, ora ne ho diverse sempre in ballo. Inoltre, creano dipendenza: una volta che si inizia a farne una o due, si scopre che se ne vogliono sempre di più e non si riesce più a smettere.
Che cosa rende la stampa così coinvolgente?
Gli effetti che si possono ottenere. Quando ero piccola c’erano quei piccoli tatuaggi che mettevi in acqua e poi rovesciavi su un pezzo di carta. Sollevavi la parte superiore per vedere l’immagine comparsa senza sapere quale sarebbe stato il risultato finale. Fare le stampe è così perché non sappiamo mai cosa verrà fuori.
Il senso del gioco pervade tutto ciò che lei crea, anche se a volte i giochi possono diventare oscuri.
Sì, il bisogno di disegnare è molto importante perché mi ha permesso di superare situazioni difficili, soprattutto alla Slade. Ciononostante, devi anche giocare.
Adesso continua a disegnare dal vero?
Disegno con il modello davanti perché lo devo copiare. Non faccio mai studi, inizio direttamente sulla tavola. Traccio disegni preparatori solo nel caso di grandi composizioni come «The Dance», «Celestina» o «The Families».
Dalla metà degli anni Novanta lei lavora a pastello, ma l’atto del disegnare è sempre stato fondamentale. Si esercita tutti i giorni?
Tutti i giorni, sì, non solo per il gusto di esercitarmi, ma perché è importante farlo. Una volta «avere mano» era una qualità disprezzata in un artista perché si pensava che la perizia tecnica costituisse un ostacolo per l’immaginazione. Ci si conformava all’idea del nobile selvaggio: le cose dovevano venir fuori spontaneamente e un po’ a caso. Ma non è così, e se si migliora in quello che si fa, ciò non significa che il risultato sia meno spontaneo.
Lei ha detto che il disegno è un’arte maieutica, che un buon disegno è tale solo se parla dell’«essere vivi».
Ci sono due tipi di disegno: nel primo tipo ci si guarda dentro e poi ci si esprime attraverso la mano di modo che essa diventi il barometro o il sismografo dell’anima. Nel secondo tipo di opera grafica si osserva ciò che si ha di fronte e lo si registra attraverso la mano. Questo atto di registrazione è frutto di molta pratica e ogni volta mi fa restare di stucco.
La sorprende ancora quanto emerge dalla sua arte?
È molto interessante perché ti rivela dei particolari che prima ti erano sfuggiti. A volte le immagini rivelano degli aspetti di te inaccettabili. Lo si fa perché ci si diverte a vedere ciò che non si dovrebbe vedere.
Dal 1994 tutte le sue opere più importanti sono a pastello su fogli di carta supportati da lastre di acciaio. Perché è passata dalla pittura a questo modo di operare?
Il pastello consente di disegnare e dipingere allo stesso tempo cambiando le cose in corsa molto facilmente. Non uso i pastelli in modo tradizionale e non mi interessa ottenere un effetto. Il mio pastello è molto disegnato e spesso, quando sbaglio, arrivo addirittura al punto di lavarlo. Come supporto utilizzo carta per acquerello fissata su acciaio, molto resistente.
Sebbene lei parli liberamente di ciò che vede nelle sue immagini, tende a evitare spiegazioni categoriche.
Nelle immagini ognuno legge la propria storia e io cambio costantemente quel che dico. Dimentico, e a distanza di anni, non sai mai come interpretare qualcosa. È così sorprendente quando si scopre ciò che si è fatto. A volte si rimane davvero sconcertati! Pensavo di aver dipinto un quadro con una formica magica e una gallina e vi ritrovo invece l’immagine di mia madre e mio padre! È davvero incredibile!
Nel suo recente dipinto «War» lei è tornata a raffigurare degli animali anche se, fedele al suo impegno a lavorare dal vero, i conigli protagonisti sono tratti da modelli che ha realizzato con carta piegata e teste di cartapesta. Perché usare gli animali?
A volte ci sono cose che non si possono fare con le persone. La guerra per esempio la può dipingere solo un Goya. Non ho mai visto queste cose dal vero. Ho visto uomini che picchiavano le mogli, ma mi rifiuto di rappresentarli. Se in un quadro metti una figura umana compi un atto meno estremo, mentre con una scimmia l’effetto è molto più grottesco e ridicolo.
Charles Saatchi ha esposto il suo lavoro nella nuova County Hall Gallery. Che effetto le fa vedere lì la sua opera?
Lì i quadri hanno un ruolo diverso rispetto a qualsiasi altro posto in cui li ho visti. Hanno un compito più arduo da svolgere in confronto a quello che avrebbero in un «white cube». La loro missione è piuttosto misteriosa: le opere fuggono lungo i corridoi come il «Bianconiglio». Ho pensato: «Dio, sto per vedere questo coniglio bianco che entra ed esce, Charles Saatchi in persona». Penso che sia un posto affascinante, inaspettato e bizzarro per esporre quadri e dovremo abituarci e vedere come le immagini continuino a funzionare. È una bella prova per le opere d'arte! È come guardare le immagini in bianco e nero: è così che si capisce se sono belle o brutte. È una prova perché i quadri sono le cose più difficili da appendere. Non si sa che cosa si vedrà lì dentro, che cosa succederà. Quali arcani si nascondono dietro le porte e i pannelli espositivi? La County Hall Gallery è il Surrealismo in azione, non ha bisogno di arte!
L'articolo è apparso originariamente su «The Art Newspaper», n. 140, ottobre 2003
Traduzione di Mariaelena Floriani
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