Stefano Causa
Leggi i suoi articoliIl libro di Elisabetta Giffi dedicato al pittore Federico Zuccari (1539/1540-1609) si presenta come uno dei più densi lavori di storia dell’arte usciti di recente. Ma non è in realtà un vero e proprio libro di storia dell’arte. Semmai una disamina delle strategie con cui uno dei protagonisti dell’Autunno del Rinascimento, al passaggio tra due secoli, provò a difendere e imporre, sul piano pratico e morale, le proprie ragioni di artista. Qualcosa che i musicologi hanno tentato per il tardo ’700 di Joseph Haydn o dello stesso Mozart (scornato sul piano del riconoscimento sociale e professionale). Cambiate le cose da cambiare ciò che, mezzo secolo fa, avrebbe fatto un maestro siciliano Renato Guttuso in un libro, Mestiere di pittore (1972), dal titolo uguale e diverso dal nostro.
Entrambi marchigiani Federico Zuccari, che visse sino al 1609, e il fratello maggiore Taddeo, scomparso precocemente nel 1566, lavorano tra la dinastia Farnese e la chiamata di correo del Concilio di Trento (1545-63). Realizzarono stampe, stemmi, frontespizi di discorsi e immagini simboliche: rilanci editoriali che illuminano lo sforzo, commovente e impudico, di rivendicazione di autonomia e coscienza professionale in cui il minore degli Zuccari, in un’età di controllori delle coscienze, s’impegnò abilmente, riuscendo a restare in equilibrio tra le accademie romane, il mercato veneziano, l’ambiente fiorentino, la Reggia di Caprarola e le corti europee.
Esperta di storia delle incisioni, con alle spalle importanti studi sulle opere della Calcografia Nazionale, l’autrice si muove bene nel difficile mondo in cui si trovarono ad operare gli Zuccari, tra rapporti allusioni, delusioni, liaison cortigiane e veleni. Si rincorrono mecenati generosi e cattivi pagatori, artisti plurali e letterati scaltrissimi e ipernavigati come Giorgio Vasari, Anton Francesco Doni e Pietro Aretino. Quadretti familiari e beghe professionali raccontano di un maestro cruciale conosciuto fino ad oggi quasi soltanto dagli storici d’arte, strozzato tra il primato di un pittore come Annibale Carracci e quello, d’altronde tutto moderno, di un vero nomade fuggiasco come il Caravaggio.
Esemplare nel metodo e nel merito questo saggio costituisce il punto di arrivo di un filone di studi di storia della cultura che in Italia baluginò solo dalla fine degli anni Settanta del Novecento e che prima non aveva riscosso grande successo (un critico dello stile come Longhi, poco incline a questo tipo di analisi centrifughe, era ormai morto da una decade e dopo la storia dell’arte cambiò). Finito il libro ricomincia il libro: una postfazione di Paolo Procaccioli reimmette le strategie di Zuccari nel cuore del mercato editoriale veneziano dove l’artista fu molto attivo. E il lettore paziente ringrazia.
Federico Zuccari e la professione del pittore, di Elisabetta Giffi, 290 pp, ill., Artemide, Roma 2023, € 48
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