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Pinin Brambilla Barcilon con Gianmaria Ajani

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Pinin Brambilla Barcilon con Gianmaria Ajani

Nata e cresciuta per lavorare

Stefano Trucco ricorda Pinin Brambilla Barcilon

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Redazione GDA

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Ho conosciuto Pinin Brambilla circa 15 anni fa a San Maurizio Canavese, un Comune non lontano da Torino, vicino all’aeroporto di Caselle. Le era stato affidato l’incarico di restaurare l’apparato pittorico dell’antica Pieve, la cosiddetta Chiesa vecchia del Cimitero. Io ero progettista e direttore dei lavori del restauro architettonico.

La conobbi «nell’esercizio delle sue funzioni», con il pennello e la tavolozza in mano, intenta a ritoccare un affresco e a discutere con sicurezza con l’allora Soprintendente, Carla Enrica Spantigati, sull’esito del restauro e dunque l’immagine che la chiesa avrebbe avuto a fine lavori. La prima volta mi guardò come si guarda un foglio trasparente di carta velina… Mi avevano detto che era una donna d’acciaio ed ero preparato.

La volta successiva mi recai in cantiere all’alba, molto prima dell’inizio dei lavori. A fianco a me parcheggiò un’auto di grande cilindrata: era Pinin, che partiva da Milano a ore antelucane per essere in cantiere in orario, anzi in anticipo come me. Aveva già 80 anni. Riuscimmo entrambi a terminare il lavoro senza problemi, ma quegli incontri al mattino presto mi avevano fatto salire nella sua scala di considerazione: non ero più trasparente!

Passano 10 anni, vengo nominato presidente del Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale», rivedo Pinin Brambilla e noto in lei un rispetto per il mio ruolo che forse solo le persone di una certa età e con una certa educazione antica hanno. Pranziamo insieme e cominciamo ad avvicinarci parlando del passato, dell’educazione ferrea che entrambi abbiamo avuto: le nostre mamme non ci sgridavano da piccoli, con uno sguardo ci pietrificavano.

Il rigore, la parsimonia, l’obbedienza, la rettitudine, la fatica, il lavoro erano stati gli insegnamenti dei nostri genitori, forse più delle due mamme che ci avevano forgiati. Per parafrasare un noto film, «born to work». Forse non abbiamo quasi mai parlato di lavoro mentre mangiavamo un «risottino giallo» vicino alla Pinacoteca Ambrosiana, nel ristorante dove i camerieri erano lusingati di poter servire Pinin Brambilla, la grande restauratrice.

Ho dedicato molto del mio tempo da presidente per riuscire a formalizzare il deposito del suo archivio tra le mura del Centro, un progetto in cui ho sempre creduto molto e un patrimonio che, oggi più che mai, abbiamo intenzione di custodire e rendere disponibile. E siccome ho sempre ritenuto che Pinin potesse impersonare la fatica di una giovane donna che voleva lavorare in un mondo di soli uomini che restauravano in doppiopetto, una donna che per la sua autonomia era stata oggetto di critiche anche feroci, ho pensato che fosse giusto e doveroso riconoscerle un titolo accademico. Quindi proposi al rettore dell’Università di Torino di avviare le pratiche per la laurea honoris causa in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali. Sia il professor Diego Elia sia l’allora rettore Gianmaria Ajani accettarono di costruire quel percorso e, strenuamente, fino alla fine si sono adoperati per il successo dell’operazione.

Il giorno della laurea Pinin aveva un viso radioso, che non dimenticherò. Spesso l’ho sentita durante il lockdown, aveva una grande autoironia nel raccontarmi che doveva «sbrigare i mestieri». E l’ho sentita anche quando voleva tornare a casa dall’ospedale per festeggiare il suo compleanno il 1 dicembre.

Era una donna con delle attenzioni particolari, con un lato romantico che mostrava con grande parsimonia e una poesia innata nel raccontare episodi di una vita straordinaria. Quando penso a Pinin il ricordo più bello che ho è quello di lei, serena e un po’ divertita, che mi racconta dei suoi esordi con Mauro Pellicioli, seduti nel suo albergo preferito di fronte al mare di Camogli.

L'autore è presidente del Centro Conservazione e Restauro «La Venaria Reale»

Redazione GDA, 20 dicembre 2020 | © Riproduzione riservata

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