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Alessandra Ruffino
Leggi i suoi articoliTorino. In tempi di videoastrologi, telecartomanti e ciarlatani arrembanti, la parola «Tarocchi» assicura un successo d’attenzione tanto istantaneo quanto (di solito) volgare. Può esserci dunque qualche rischio nell’invitare il pubblico a mettersi seriamente faccia a faccia con simboli, trasformazioni, varianti e usi di quelle ammalianti figure impiegate a fini divinatori a partire dal tardo Settecento, ma la cui genesi risale al XV secolo.
La mostra «Tarocchi dal Rinascimento a oggi», curata da Anna Maria Morsucci e da Riccardo Minetti delle edizioni Lo Scarabeo (che festeggiano il trentennale), aperta fino al 14 gennaio 2018 al Museo Ettore Fico di Torino, scampa il rischio e aiuta ad avventurarsi nella selva di cifre, suggestioni e insegnamenti a cui la macchina filosofica dei Tarocchi ha dato forma e vita in sei secoli. Quella dei Tarocchi è vicenda complessa e incerta fin dal nome e dal luogo d’origine, da porsi probabilmente tra la Milano viscontea e la Ferrara estense, come spiegano in catalogo due dei più autorevoli studiosi in materia: Andrea Vitali e Giordano Berti.
Si tratta di una storia che produce capolavori d’arte (come i mazzi realizzati da Bonifacio Bembo per Filippo Maria Visconti, di cui sono in mostra alcune carte) e che incrocia e intreccia àmbiti diversi: cultura materiale e popolare, filosofia occulta, storia della lingua, psicoanalisi e, ovviamente, impostura. Se ai dadi vince il più fortunato, agli scacchi il più abile, «nel gioco della Vita l’uomo gioca a carte», ricorda in catalogo il biologo Giovanni Pelosini; la plurisecolare «fortuna» dei Tarocchi, capaci di combinare e scombinare storie sempre passibili di mutamento (lo sapeva Italo Calvino), si deve proprio al loro essere metafora dell’esistenza.
Col render conto di tale molteplicità, la mostra non delude né chi sia dedito alla «magia» dei Tarocchi, né il curioso. Anche grazie a un efficace allestimento, risaltano le sale che ripercorrono le origini e illustrano le valenze mistico-sapienziali e ludiche dei Tarocchi; meno efficaci la sezione pop (i Tarocchi di David Bowie, ad esempio, sfolgorano di puro kitsch) e quella erotica. Al Giardino dei Tarocchi di Niki de Saint-Phalle, realizzato nei dintorni di Capalbio tra 1978 e 1998, è poi dedicato un spazio sé. Quanto al giocoso invito con cui il visitatore è accolto in mostra, non ne svelerò i termini, ma è qualcosa che diverte e sembra osservare una regola base dell’alchimia (e in realtà di ogni cammino di Crescita), che doveva essere physiká kaì mystiká, materiale (sperimentale) e spirituale.
Dopodiché si può uscire dalla mostra in pieno accordo con l’affermazione di Jung secondo cui il gioco è l’apice dell’uomo.

«La forza», di Ferec Pinter, 1989
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