Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliLa mostra «Pittura italiana oggi», aperta sino all’11 febbraio 2024 alla Triennale Milano (catalogo Electa) sconta in parte un peccato curatoriale che pensavamo in via di estinzione: si dilata su una dimensione compilativa invece di assumere una posizione critica e di documentare delle scelte. Il suo curatore, Damiano Gullì, componente del Comitato scientifico della Triennale, allestisce ciò che ha raccolto in una sorta di anagrafe della pittura italiana dei nati tra il 1960 e il 2000. Ma un conto è un’inchiesta giornalistica (pubblicata a puntate su «Artribune»), un altro è una mostra.
Le numerose assenze lasciano supporre che Gullì abbia comunque voluto imprimere un marchio «di tendenza», sia pure all’insegna della pluralità delle estetiche: questo spiegherebbe, tra l’altro, la bocciatura quasi in tronco dei pittori rappresentati nell’assai «pittorico» Padiglione Italia del 2009 (curato da Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli) come, tra gli altri, Daniele Galliano, Manfredi Beninati, Valerio Berruti o Luca Pignatelli e dei «testoriani» cui l’anagrafe avrebbe concesso il visto d’ingresso alla mostra, come Velasco o Andrea Martinelli.
Forse il timore di togliere con la loro presenza troppo spazio ai decenni più recenti potrebbe essere un’altra ragione di esclusioni che non risparmiano neanche qualche quarantenne non immeritevole di rappresentare la «pittura italiana oggi». La scelta di mettere insieme 120 artisti, ognuno rappresentato da un unico quadro, era un altro rischio; se Gullì è riuscito a evitare l’effetto Salon, lo deve agli splendidi spazi del Palazzo della Triennale e ad un allestimento intervallato da opere che vivacizzano il percorso coniugando la pittura con una struttura installativa (Riccardi Baruzzi, Alice Visentin, Edoardo Piermattei), ambientale (Benni Bosetto), immersiva (Adelaide Cioni con il suo labirinto di tessuti o Daniele D’Elia, con il suo ambiente «in apnea» in iris blue), contemplativa (la finestra sul «mondo della pittura» concepita da Roberto Coda Zabetta), e qua e là dilatata nel recupero delle nobili tradizioni dell’alta decorazione e della pittura in situ (Erik Saglia, Alberto di Fabio, Paolo Gonzato) che da queste parti è di casa, ricorrendo il 90mo anniversario della mostra «Pittura murale e scultura decorativa» curata qui da Mario Sironi.
Altrove l’allestimento è ritmato per temi o per assonanze iconografiche, il che ha condannato a impietosi confronti soprattutto gli artisti più deboli. In un ambiente in cui il tema erano i mondi e le creature mutanti, chi ne esce alla grande è il «Parasite Soufflé», una tenia gigante evocata da Oscar Giaconia attraverso una tecnica tanto raffinata quanto complessa. Certo l’inizio è scoraggiante, se si pensa al trio, unito dall’interesse per la figura e il ritratto, composto da Pietro Moretti, Emilio Gola e Maddalena Tesser. Seguono capitoli un po’ didascalici, come quello su «ambienti marini e ultime spiagge» (le virgolette sono nostre) con Thomas Braida, Flaminia Veronesi e Francesca Banchelli. O quello, in una mostra in cui il colore naturalistico/mimetico sembra bandito, sulla natura vista dalla trentanovenne Linda Carrara e da due nati negli anni Sessanta, un elegantissimo Luca Pancrazzi e Pierluigi Pusole.
Nei licei artistici e nelle accademie spesso si trascura la copia dal vero e lo studio della figura umana e i risultati si vedono soprattutto nelle ultime generazioni in mostra. Meglio gli aniconici, con un bell’accostamento tra i non più giovanissimi Massimo Kaufmann, con il suo «Sistema periodico» (e cromatico), e Pietro Capogrosso, con 14 «Orizzonti domestici» scrutati al tempo del lockdown e un po’ alla Diebenkorn. Sono tra i pochi artisti presenti che fanno un «discorso sulla pittura», al pari di Maria Morganti, e sulla sua storia, come Gabriele Picco, senza per questo cascare in allegoriche figurazioni che ci rimandano ai tempi del citazionismo (Nicola Verlato, ad esempio, erige un apocalittico e affollatissimo mausoleo all’immancabile Pasolini).
Gullì è uno a cui evidentemente piace rischiare e ha chiesto a tutti gli artisti invitati di presentare opere dell’ultimo biennio. Così Pietro Roccasalva, che lavora per la Galleria Massimo De Carlo, si fa sorprendere clamorosamente fuori forma con un pasticciato omaggio (e dàgli) a «La Ricotta» di Pasolini, mentre, lì nei pressi, Pietro Ruffo (Galleria Lorcan O’Neill) lo surclassa con un raffinato paesaggio a inchiostro, oli e ritagli su carta intelata, così ben composto da fargli perdonare il fatto di aver scelto un titolo-tormentone come «Antropocene».
I figurativi di oggi guardano con interesse più o meno motivato al Surrealismo (come l’ottimo Guglielmo Castelli, 1987), e sono dotati di una cultura visiva debitrice ai fumetti e alla fantascienza, anche se non ci pare illecito supporre che Luca Bertolo non abbia pensato ai «Funerali di Togliatti» di Guttuso (e magari anche a Ensor), componendo il suo «Corteo», in cui i manifestanti portano cartelli inneggianti a Masaccio e a Keith Haring. Molti, purtroppo, usano la pittura non come finestra sul mondo (un dipinto sugli sbarchi dei migranti dell’assente Giovanni Iudice poteva anche starci) ma come microscopio messo a fuoco sul proprio ombelico, con un’inquietante forma di autoindulgenza: Manuele Cerutti si autoritrae in un «Soliloquio» che fa rimpiangere i dipinti di qualche anno fa, dedicati a «teatrini» animati da oggetti trovati. La quotidianità, tanto spesso musa di alcuni dei 120 artisti, non è quella morandiana, ma un’onanistica forma di narcisistico «male di vivere» che raramente si stempera in una salutare ironia (si veda il luciferino mal di schiena la cui iconografia è tratta, nel dipinto di Valerio Nicolai, da una pubblicità di antidolorifici).
Tra i pregi della mostra, la rivelazione ai meno addetti ai lavori di alcuni autori non ancora sovraesposti, o anche, al contrario, l’aver messo alla prova, con risultati alterni, alcuni veterani, come Stefano Arienti, Marco Cingolani, Margherita Manzelli o Alessandro Pessoli. E se si respira nell’insieme una certa freschezza nelle scelte, non si capisce perché attenuarne gli effetti con presenze imbarazzanti per idee e qualità. Nel 2021, alla Hayward Gallery, Ralph Rugoff si prese la responsabilità di allestire la mostra «Painting Today», di respiro internazionale, con soli 31 artisti. Alla Triennale i non pochi che potevano essere lasciati a casa si fanno invece pesantemente notare. Così, condizionati dalla nociva percentuale di tele inutili o brutte che si sono incomprensibilmente guadagnate queste sale, sono sufficienti le cinque bombole di gas dipinte di rosa che Francesco Lauretta ha posto a corredo del suo quadro per ingannarci e farci sentire «vecchia» anche la pittura (e qui se ne vede) che non lo è affatto.
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Artista, bibliotecario, insegnante privato di francese, organizzatore e geniale allestitore di mostre: il suo celebre orinatoio capovolto è stato considerato l’opera più influente del XX secolo. Usava lo sberleffo contro la seriosità delle avanguardie storiche, e intanto continuava a scandagliare temi come il corpo, l’erotismo e il ruolo dello spettatore
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