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Un Mecenate in toga

Una strepitosa collezione donata al Museo Diocesano di Milano, la villa di famiglia e il prezioso contenuto al Fai: così un principe del foro ha fatto ricca (con una generosità non sempre debitamente riconosciuta) la sua città

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Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Giurista di fama internazionale, maestro di più generazioni di grandi penalisti, avvocato di Mediobanca, di Montedison, di Carlo De Benedetti e protagonista di alcuni dei casi più scottanti dei decenni passati (per tutti, quello riguardante il Banco Ambrosiano), Alberto Crespi, 93 anni, è anche musicista e musicologo, diplomato al Conservatorio di Milano, ed è un esecutore appassionato, all’organo, di musica barocca tedesca, specie dell’amatissimo Bach. Chi ama l’arte visiva, però, lo conosce soprattutto come il mecenate che nel 2001 donò al Museo Diocesano di Milano 41 preziosi dipinti a tempera su fondo oro del Trecento e Quattrocento, prevalentemente toscani ma non solo, stimati al momento della donazione intorno ai 40 milioni di euro. Un tesoro unico nei musei milanesi, nessun altro dei quali può sfoggiare un nucleo tanto ricco e prezioso di pittura toscana del tempo. Ma non basta: con il fratello Gianpaolo, neuropsichiatra, ha lasciato in comodato d’uso al Fai la villa urbana di famiglia (1.200 metri quadrati e quasi 5mila libri di diritto, oltre a qualche altro migliaio di storia della musica e scienze musicali e di arte, e a un imponente organo), posta all’angolo tra le vie Verga e Paolo Giovio. Commissionata alla fine degli anni Venti all’ingegnere milanese Erminio Alberti dal padre Fausto, industriale, la villa è caratterizzata da un’eleganza sobria e severa, secondo il gusto della migliore borghesia colta del tempo, ed è rimasta inalterata dal 1931, quando la famiglia Crespi vi entrò. Un gesto di generoso mecenatismo, il loro, anche perché la precedente donazione al Museo Diocesano ha creato ad Alberto Crespi più di un’amarezza. 

Professor Crespi, può raccontare la vicenda?
Già al momento della donazione accadde che le persone che mi ringraziarono furono, complessivamente, due: il giorno precedente l’inaugurazione, un dottore commercialista toscano, di cui purtroppo mi sfugge il nome, che, letta la notizia sul «Corriere della Sera», si affrettò a ringraziarmi. Da buon toscano, aveva evidentemente capito di quale entità, e soprattutto qualità, fosse il dono. Posso solo dire che un dipinto della collezione, valutato nei primissimi anni Novanta 1,6 miliardi di lire, poco meno di dieci anni dopo è stato valutato dalla Soprintendenza milanese (in occasione del versamento a titolo di cauzione da parte di un museo fiorentino, che lo aveva chiesto in prestito per qualche mese) 3,5 milioni di euro: più del quadruplo della originaria valutazione. La seconda persona che mi ringraziò, il giorno dell’inaugurazione, fu Silvio Berlusconi, che in ascensore disse: «Grazie, Crespi, per ciò che ha donato». Da quelle che si sogliono definire «le autorità cittadine», non giunse un solo gesto di apprezzamento: sembrava che la cosa non riguardasse nessuno. Eppure avevano ragione loro: quando mai temi e problemi di impronta intellettuale possono, anche soltanto per errore, rasentare la curiosità delle «autorità»? Anche dalla Curia, se si esclude la prefazione al catalogo del cardinale Carlo Maria Martini, dove ero ringraziato, non giunse alcun segno. Tuttavia, ciò che davvero mi indigna è il grave incidente che si è verificato nel novembre 2015: l’allora direttore del Museo Diocesano, Paolo Biscottini, e io eravamo da tempo in fibrillazione perché, con l’avvento del nuovo presidente (Ugo Pavanello, Ndr), nel museo molto era cambiato. Questa persona non riusciva a comprendere la necessità di una climatizzazione costante, 24 ore su 24. Da allora iniziò a manifestarsi la sua insofferenza nei confronti di Biscottini, che non è certo uomo capace di tollerare simili decisioni e che, infatti, sarebbe poi stato allontanato in malo modo. 

I suoi dipinti furono danneggiati? 
Certo: mi bastò esaminare le foto dell’opera più importante, completamente «incerottata». Naturalmente si può ribattere sostenendo che le cause possono essere molteplici. Perciò chi, come me, ha avuto la fortuna (o la disgrazia) di esercitare la professione forense, con prevalenza nel settore penalistico, sa bene che le dispute di questa natura non hanno alcun senso. I danni possono essere ascritti allo spegnimento della climatizzazione ma anche all’ammaloramento dovuto allo scorrere del tempo: ogni tesi è confutabile. Però i fatti recenti della Pinacoteca di Brera dimostrano che un difetto della climatizzazione è una causa primaria del danneggiamento delle opere. 

Se la mala gestione dovesse continuare, lei potrebbe rientrare in possesso della sua collezione?
Certamente: basta sollevare, avanti al Tribunale Civile di Milano, la questione dell’indegnità del donatario. E qui d’indegnità ce n’è da vendere, perché è un dato di fatto, provato, che l’impianto fu spento deliberatamente (per risparmiare sui costi) dal presidente, cui pure non spettava decidere su questi aspetti. Per ben tre giorni, nel mese di novembre, Paolo Biscottini avvertì in museo una sensazione di freddo e umidità, e quando inviò il tecnico a verificare se l’impianto fosse guasto, si sentì rispondere che l’impianto era funzionante ma che era stato spento (per ordine evidentemente del presidente). Per tre giorni i dipinti restarono quindi senza climatizzazione. L’impianto fu subito riacceso per ordine del direttore: era a lui del resto che spettava questa tecnicalità e il presidente, nel caso, sarebbe stato tenuto a discuterne con lui. Si trattò anche di un peccato d’ingenuità da parte della presidenza: è impossibile non capire che la climatizzazione, per i dipinti su tavola specialmente, è come una terapia intensiva, che non si può certo interrompere a piacimento. 

Se lei intentasse una causa per indegnità, da giurista qual è, pensa che avrebbe buone probabilità di vincerla? 
Certamente sì; il mio stato attuale di salute non mi permetterebbe tuttavia di affrontare gli stress che ne deriverebbero. Tenga presente, però, che nessuna causa è mai stata più vittoriosa di quella che nessuno si è mai sognato di presentare ai giudici. Per altro, anche per quanto già detto, ho nominato mio nipote Francesco Crespi mio sostituto a tutti gli effetti, affidandogli gli stessi miei poteri e doveri concernenti il Museo Diocesano di Milano. 

La sua più recente donazione, nel giugno scorso, è andata al Museo Diocesano di Bressanone-Brixen, in Alto Adige. Si tratta di una pala d’altare del XV secolo raffigurante l’«Uomo di dolori fra i santi Ambrogio e Agostino», da lei pagata circa 500mila euro, attribuita al Maestro tedesco di Chiaravalle. Si tratta di un dipinto «milanese»: accanto al Vir dolorum figurano infatti sant’Ambrogio e sant’Agostino (che a Milano si convertì e fu battezzato da Ambrogio nel 387 d.C.) e per di più vi figura la «raza», il sole radiante visconteo. Dunque, a rigore, sarebbe dovuto andare a un museo di Milano. La scelta dell’opera e della destinazione sembrano essere un suo guanto di sfida lanciato ai musei milanesi. 
Direi piuttosto che ho voluto dare un cazzotto, di quelli ben assestati, a certi ambienti milanesi sovraffollati di cialtroni. Potrà dispiacere questo epiteto ma è efficacissimo: una lama. Perché proprio a Bressanone? Perché fin da piccolo ho avuto una vera passione per la cultura germanica. Sono sempre stato «inchiodato» dalla musica organistica tedesca, di Bach e di Dietrich Buxtehude specialmente. Se lei scorresse l’elenco dei vescovi di Bressanone dal X secolo in poi, si accorgerebbe di quanto lì sia radicato il carattere germanico e, per converso, di quanto sia di sapore «ideologico» la formuletta di «Alto Adige», in luogo di quella di «Sud Tirolo», di gran lunga più corretta. E l’autore del dipinto è tedesco, appartiene alla loro cultura, sebbene l’opera sia stata realizzata nel 1445-50 per le suore del convento di Brugherio, presso Milano. 

Lei e suo fratello Gianpaolo, neuropsichiatra, avete donato, conservando il comodato d’uso, la vostra casa di famiglia al Fai, che con questa residenza ha inaugurato un nuovo corso, analogo a quello adottato dal National Trust: la villa non è, infatti, né un castello né un palazzo antico ma è la testimonianza del modo di vivere, nella prima metà del secolo scorso, della migliore borghesia italiana, imprenditoriale e delle professioni. Come mai la casa non ha subito alcuna modifica per tanti decenni? È un caso molto raro.
La casa documenta un’epoca e una cultura. È rimasta inalterata perché, benché molto vasta, è sempre stata unifamiliare. Siamo venuti ad abitarci quando io avevo otto anni (ero il minore di cinque figli): dopo nemmeno dieci anni è scoppiata la guerra e il primogenito, che era ufficiale di complemento nel Savoia Cavalleria, partì per la Russia. Ne tornò per fortuna, ma nel 1943, giusto in tempo per essere arrestato dai fascisti e gettato nel Quinto raggio del carcere di San Vittore. Tutti pensano che in una simile casa si siano celebrate chissà quali feste: ma quali feste? Furono anni terribilmente dolorosi e per via della guerra prima, poi per la malattia e morte di mio fratello Giorgio, architetto, e di mio padre due anni dopo, nel 1948, si accumularono difficoltà, facilmente intuibili, di ogni genere. Fu solo grazie a mia madre se riuscimmo a conservare la casa, perché noi figli eravamo tutti giovani, e allora gli assistenti universitari non guadagnavano nulla, i medici neppure... E mia madre, scomparsa a 103 anni una ventina di anni fa, conservò tutto com’era. 

Un cambiamento c’è stato: lei ha sacrificato un bagno per installare un organo con 1.500 canne. Così si dice…
È la verità: è qui, accanto al mio studio (è davvero impressionante, Ndr). L’ho installato nel 1966, quando avevo oltre 40 anni e avevo già fatto alcuni anni di avvocatura. Nel 1974 aggiunsi un’altra tastiera, così acquisì il timbro di un organo barocco, perfetto per suonare Bach. Purtroppo le mie mani non sono più abbastanza elastiche per suonare, ma l’ho fatto con grande gioia per anni e anni.

Lei e suo fratello non avete eredi, ma avete due nipoti. Come hanno accolto la notizia della donazione al Fai della casa di famiglia? 
Sono stati perfettamente d’accordo; felicissimi, anzi. Per loro, tra l’altro, sarebbe stato un incubo svuotare questa casa. 

Nella sua carriera d’avvocato, lei è stato testimone, ai massimi livelli, dei casi italiani più scottanti dal dopoguerra fino a qualche anno fa: quali, secondo lei, hanno avuto un peso maggiore sulla storia recente del nostro Paese? 
Molti mi hanno chiesto di scrivere un libro di memorie. Io ero l’avvocato di Mediobanca, ma è evidente che non posso parlare né di Enrico Cuccia né di Michele Sindona, il mandante dell’omicidio Ambrosoli. Del resto, ho deliberatamente distrutto tutto ciò che poteva riguardare Cuccia e la mia attività professionale in genere. L’ho fatto, oltre che per ragioni di segreto professionale, per tutelare la dignità delle persone direttamente e indirettamente coinvolte in quelle vicende giudiziarie. Indimenticabile, se mai, era l’avvocato Adolfo Tino, il vero e più autorevole personaggio del tempo di Mediobanca, di cui è stato presidente. 

Quindi, non possiamo attenderci un suo libro di memorie, che getterebbe luce su tanti dei misteri d’Italia del secolo passato. 
Non lo scriverò mai, e non solo perché, come ho detto, ho distrutto ogni documentazione, ma soprattutto perché sarebbe inevitabilmente diffamatorio nei confronti di persone che, chiusi i processi, hanno diritto alla riservatezza. 
 

Ada Masoero, 11 marzo 2017 | © Riproduzione riservata

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