Hiroshi Sugimoto (Tokyo, 1948) si è sempre contraddistinto per un pensiero artistico saldamente e indissolubilmente correlato all’etereo e alla semplicità della poetica orientale. Il suo concettualismo e minimalismo, impersonificato quasi sempre da stampe in bianco e nero che mettono in dialogo estremi esistenziali come il pieno e il vuoto, la vita e la morte, l’istante e l’eternità, riecheggia di sapere filosofico e di rigore compositivo. A Parigi, alla Fondation Giacometti, va in scena il suo connubio con la scultura esistenzialista di Alberto Giacometti (Svizzera, 1901-66) nell’esposizione, visitabile fino al 23 giugno, «Giacometti / Sugimoto: en scène».
Le premesse a questa mostra arrivano dal passato, quando a Sugimoto, nel 2013, fu commissionato, dal Museum of Modern Art (MoMA) di New York, l’incarico di fotografare le sculture moderniste ospitate nello Sculpture Garden del museo newyorkese. Un’opera in particolare colse profondamente la sua attenzione, «Tall woman» di Alberto Giacometti, tanto da calibrare su di lei l’intero metodo estetico di quello che sarebbe stato il progetto «Past Presence». «Un pezzo esile il cui corpo non era più fatto di carne, ma che esprimeva un modo di essere “estremo”, corrispondente a ciò che volevo rappresentare nel mio approccio alla fotografia» spiega il fotografo.
In una coltre sfocata di grigi, la «donna giacomettiana» è stata colta da Sugimoto in due momenti diversi della giornata, in pieno giorno e al tramonto, portando alla luce una dualità esistenziale che al fotografo giapponese ha richiamato due personaggi del teatro nō, che nella tradizione giapponese racconta anime morte che tornano in vita come corpi visibili e gemono e danzano per la loro scomparsa. Sempre interessato a rendere rappresentabile l’invisibile, Sugimoto fu istantaneamente rapito dall’essenza della scultura di Alberto Giacometti, e dai rimandi culturali ed estetici che l’opera scaturiva in lui.
«Giacometti / Sugimoto: en scène» alla Fondation Giacometti di Parigi è il risultato di quell’incontro, di quel suo pensare che ha cucito insieme la poetica visiva di Giacometti e la tradizione giapponese, in un immaginario denso di interpretazioni e significato. Nella casa-studio dello scultore svizzero, nel quartiere di Montparnasse, è ricreata, a cura di Hiroshi Sugimoto, una scena teatrale della tradizione nō (allestendo un classico sipario stampato con il motivo del pino creato da Tosa Mitsunobu, pittore del XVI) in cui cinque sculture di Alberto Giacometti, riconoscibili per la famosa fisionomia allungata, si stagliano in un dialogo immaginifico sull’esistenza umana.
Le immagini del fotografo giapponese, come anche i suoi video esposti in mostra, interagiscono diffusamente con la riproduzione di questo scenario in un coro a più voci: ci sono le fotografie scattate nello Sculpture Garden del MoMA, alcuni suoi «Seascapes», chiari elementi di contemplazione esistenziale per l’autore giapponese, e ad arricchire l’insieme compaiono anche alcune maschere nō appartenenti alla collezione personale di Sugimoto.
«Giacometti / Sugimoto: en scène» è la rappresentazione di un incontro, le cui voci appartengono al presente e al passato, alla materialità dell’essere come anche alla sua impalpabile essenza, alla luce come alle ombre, alle presenze come alle assenze. L’immaginario di Sugimoto, quello di Giacometti e quello del teatro nō, di fatto, attingono la loro linfa dallo stesso calderone: l’esistenza umana.