ARTE e CINEMA | Via col vento

Il fermo immagine su film e serie TV

Rossella O'Hara nella biblioteca con il busto in primo piano
Marco Riccòmini |

«Quando il braccio si alza e arriva a ... quanto?», chiese girando le spalle. A circa trenta piedi d’altezza, riprese facendo un gesto nell’aria con la mano mentre dietro di lui alcune teste annuivano senza fiatare, «il campo deve essere fitto di morti e feriti. Non voglio vedere spazi vuoti per terra, avete capito? Voglio un tappeto di soldati, a perdita d’occhio, da lasciare gli spettatori senza parole».

Per quella scena, diventata poi un cult nella storia del cinema, David O. Selznick aveva chiesto non meno di 2.500 comparse. Ma, proprio quel giorno, con altri quattro film in lavorazione, la Screen Actors Guild non riusciva a metterne a disposizione più di 1.500 pur avendo fatto miracoli andandole a reclutare per la strada, alle fermate dell’autobus e persino in un rifugio di senzatetto.

Così, dopo una sfuriata durata un’eternità e una telefonata fiume che aveva lasciato la bachelite del telefono bollente, si era dovuto ricorrere a un migliaio di manichini, sdraiati a terra, alternati ai feriti che gemevano, nel piano sequenza in cui Scarlett O’Hara (Vivien Leigh, Rossella nella versione italiana) si fa strada tra i corpi in cerca del dottor Meade.

L’attenzione alla verosimiglianza sul set di «Via col vento» (1939) è testimoniata da un’infinità di aneddoti, a cominciare dalla prima scena girata, quella dell’incendio di Atlanta. Sarebbe bastato un soffio di vento improvviso e tutto sarebbe andato letteralmente a fuoco quando, per riprodurre la distruzione della cittadina sudista, si diedero alle fiamme le scenografie del «The Garden of Allah» (il film con Marlene Dietrich del 1936) e alla colossale muraglia di «King Kong» (1933), veri pezzi della storia del cinema.

113 minuti di riprese così intense, o meglio roventi, che il centralino dei vigili del fuoco fu intasato dalle telefonate dei residenti di Culver City, convinti che gli Studios della Metro-Goldwyn-Mayer stessero bruciando.

Molta cura fu dedicata anche agli interni della casa di Ashley (Leslie Howard), detta delle Dodici Querce (Twelve Oaks) che, pur discostandosi nella trasposizione cinematografica da quella in stile Greek-Revival del racconto di Margaret Mitchell, grazie alla sua maestosa scalinata rimane ancora oggi un’immagine iconica nella memoria di chi ha visto il film. Lyle R. Wheeler vinse l’Oscar per la migliore scenografia e non si può dire che non se lo sia meritato, basti pensare al trucco allora sperimentale di dipingere alcuni sfondi, come i soffitti esageratamente alti di Twelve Oaks, su vetrini sovrapposti alla cinepresa.

Però non poteva controllare ogni minuzia. Così nella scena in cui Rossella dichiara il suo amore ad Ashley nella biblioteca della sua tenuta, mentre Rhett (Clark Gable) non perde una parola da dietro il divano, appare un busto in bronzo sopra una consolle.

Si tratta di una copia del Busto di Dioniso, un tempo reputato di Platone, scoperto nel 1759 nella Villa dei Papiri ad Ercolano e oggi conservato al Museo Archeologico di Napoli. Pezzo ideale per una biblioteca che però molto difficilmente avrebbe potuto trovarsi in Georgia durante la Guerra di Secessione (1860-65), perché copie come quelle si cominciarono a fondere a Napoli solo sul finire del secolo.

Inoltre, quel busto poggia su una base di marmo giallo, detto broccatello di Siena, simile all’originale ercolanese e del tutto identica a quella su cui venivano montate le copie della fonderia napoletana di Giorgio Sommers (1834-1914). Nel catalogo a stampa di Bronzi & Terracotta [sic] della ditta Sommers (senza data, ma post 1889) si offriva su ordinazione il «Busto di Platone imit. origin.» in tre diverse dimensioni.

Quello nel film si direbbe il modello di 67 cm di altezza, in Patina Ercolano («vert demi poli», ossia «verde oscuro quasi lucido»). In voga agli inizi del Novecento anche negli Stati Uniti (al punto che la P. P. Caproni & Brother di Boston ne offriva una versione di eguali dimensioni in gesso), ma di certo non in quelli Confederati di metà Ottocento, dove è ambientato il lungometraggio.

Dettagli naturalmente, che per un appassionato come me richiedono un improvviso fermo immagine, a dispetto di chi mi sta accanto sul divano che vorrebbe soltanto godersi il film.

© Riproduzione riservata Rossella O'Hara nella biblioteca con il busto in primo piano La dichiarazione d’amore con busto di «Via col vento»
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