Giorgio Bonsanti
Leggi i suoi articoliMai come in questo caso restaurare significa farsi carico non solo di un oggetto materiale, ma di tutto il suo fardello di simboli, pensieri, ricordi, angosce e speranze. Muoversi fra due estremi come la vita e la morte; nella mente, la speranza in una redenzione per il genere umano che sembrerebbe quasi inimmaginabile, a fronte della inconcepibile malvagità dei campi di sterminio.
Il Memoriale che fu installato nel blocco 21 del campo di Auschwitz nel 1979 a cura dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati) era un prodotto della migliore intellighenzia soprattutto milanese: lo studio BBPR (fra i fondatori, Lodovico di Belgioioso, sopravvissuto alla deportazione a Mauthausen-Gusen, a differenza di Gian Luigi Banfi, altro membro fondatore morto poco prima della liberazione), il documentarista e poeta Nelo Risi (fratello del più famoso Dino) e Giordano Quattri, titolare della ditta che lo realizzò materialmente. Insieme con loro, il torinese Primo Levi, il palermitano Mario (Pupino) Samonà, autore delle pitture realizzate su 23 tele ricurve per un totale di 550 metri quadrati, e il veneziano Luigi Nono, che consentì l’utilizzo di musiche sue di uguale ispirazione già esistenti.
Il monumento consiste in un percorso di 80 metri, dove si cammina, fasciati dalle strisce dipinte, sopra doghe in legno trasversali ad alludere a traversine ferroviarie; nell’aria le musiche di Nono. Ma qui non è spazio per una descrizione dettagliata. Ricordo soltanto che era già stato sottoposto a un intervento di manutenzione nel 2008 a opera degli studenti dell’Accademia di Brera, e che nel 2015 l’ultimatum della direzione del Campo, che ne minacciava la rimozione perché fuori dai modelli condivisi dai memoriali di altre Nazioni (non oggetto didattico, ma creazione artistica), costrinse il nostro Paese a studiarne una collocazione diversa.
Anche perché, come ripetutamente osservato dal presidente dell’Aned Dario Venegoni, nessuno fra i nostri Governi volle o seppe tenere una posizione ferma in proposito. Lo stesso Belgioioso aveva incontrato molte difficoltà a far comprendere che l’Italia non si identificava unicamente con il regime fascista. Sappiamo anche che alla Polonia non andavano giù alcune innocue citazioni visive nelle pitture, come una falce e martello o un ritratto di Gramsci. A quel punto, se ragioniamo adesso strettamente in termini di restauro, si identificò il compromesso migliore rispetto alla rimozione prospettata dalle autorità polacche: lo smontaggio, il trasferimento in Italia, il rimontaggio in una sede da identificare.
Lo smontaggio fu eseguito dai restauratori della Cbc, notissima ditta di restauro con base a Roma, con la presenza vigile dell’Iscr; seguendo i principi del miglior restauro, con rilievi accuratissimi del monumento tanto da consentirne una ricostruzione identica a quella d’origine. La nuova sede fu offerta dalla città di Firenze in accordo con la Regione: l’edificio denominato Ex3 fino ad allora saltuariamente utilizzato per attività di arte contemporanea nel quartiere di Gavinana, dove un salone alto 11 metri è stato soppalcato in modo da consentire una suddivisione fra la parte introduttiva e informativa a livello del suolo e il monumento ricostruito al piano superiore.
Il restauro vero e proprio, consistente nella pulitura a secco delle tele dipinte, nella revisione dei telai metallici sezionati allo smontaggio, perfettamente risaldati e provvisti di nuovi sistemi di tensionamento, è stato eseguito da una squadra diretta da Oriana Sartiani dell’Opificio delle Pietre Dure (Opd), composto da restauratori privati che si appoggiavano alla Cooperativa Archeologia. In un certo senso, proprio l’aspetto da opera restaurata è quanto in un primo momento induce a un’istintiva reazione di spaesamento; a mio parere, sarebbe quasi giusto lasciare che negli anni a venire si accumuli un poco di deposito di sporco e, per così dire, di uso; il tutto assolverebbe ancor meglio alla propria funzione se assumesse un aspetto più «vissuto».
D’altronde, sempre di un’opera d’arte si tratta, di arte contemporanea, anche se si fatica un po’ a vederla sotto questa luce. O forse è proprio questa la lezione che ci viene consegnata: che l’ideazione e la creazione artistica hanno la capacità di assumere significati e responsabilità tali da parlarci in maniera differente rispetto alle sole testimonianze documentarie, per quanto terribili. Il Memoriale ricostruito dovrà diventare un luogo visitato dagli italiani, soprattutto dalle scuole, monito terribile a non abbassare la guardia, ma anche a ricordare che da qualche parte del mondo ancor oggi vengono perpetrate infamie assimilabili ai campi nazisti. A noi del restauro resta l’ammirazione per un’operazione splendida dal punto di vista tecnico e metodologico, che ha visto collaborare esemplarmente le forze migliori del nostro Paese, a cominciare da Iscr e Opd.
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