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Milano. Oltre 2.500 miglia separano la sorgente del Gange, nel ghiacciaio del Gangotri, nel cuore della catena dell’Himalaya, dalla sua foce nel Golfo del Bengala, in Bangladesh. Giulio Di Sturco (Roccasecca, Frosinone, 1979; vive e lavora tra Londra e Parigi) li ha percorsi tutti, sviluppando il suo progetto documentario pluriennale «Ganga Ma», concepito come testimonianza del disastro ecologico che già si è compiuto lungo il grande fiume e che procede con velocità crescente: nel documentare i danni dell’inquinamento, dell’industrializzazione e dei cambiamenti climatici, Di Sturco evidenzia anche i segni di ciò che, a breve, ci attende.
Nulla di buono ovviamente ma, anzi, uno scenario da day after, in cui il disastro ecologico diventa la premessa di una crisi umanitaria. Il Gange, che offre sostentamento a oltre un terzo della popolazione indiana, diventa qui la metafora della collisione sempre più violenta tra l’ambiente e l’uomo che, riversando nel fiume enormi quantità di rifiuti tossici, ne sta distruggendo la vita.
Per raccontarlo, Di Sturco da un lato rivela la maestosa bellezza del fiume, dall’altro ne evidenzia la tossicità, e accentua la seduzione delle immagini scattando le fotografie nelle morbide luci dell’aurora e stampandole su una carta la cui texture regala loro una sorta di tridimensionalità, mentre le tonalità sabbiose potenziano la sensazione di aridità della terra. Le immagini di «Ganga Ma» sono al centro dell’omonima mostra curata da Eimear Martin per Fondazione Stelline, dal 6 febbraio al 22 marzo.
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