La mostra impossibile | La fucilazione di Manet

La storia è costellata di opere d’arte «ferite», ma si può immaginare di ricucire antichi strappi

«Fucilazione di Massimiliano d’Asburgo», fotomontaggio della «Fucilazione di Massimiliano d’Asburgo» di Édouard Manet presso la Kunsthalle di Mannheim (a colori) e dei frammenti del dipinto presso la National Gallery di Londra (in bianco e nero)
Marco Riccòmini |

La storia è costellata di opere d’arte «ferite», come i Buddha di Bamiyan, fatti brillare dai mujāhidīn, o le statue «pagane» del museo di Mosul, prese a martellate sotto gli occhi del mondo intero. Così ho provato a immaginare una mostra che ricucisse antichi strappi, una mostra che si può soltanto sognare quando il giorno scivola dentro la notte.

«Signor X? Buongiorno. Sono Sarah, la restauratrice: disturbo? Volevo chiederle se riusciva a passare. No, non è successo niente; anzi» disse, senza trattenere un sorriso.
«Beh, preferirei non anticiparle nulla; ma passi appena riesce, così vedrà coi suoi occhi. Sì, una sorpresa: l’aspetto!»

Incuriosito, X guarda l’ora sul cellulare, prende il casco e le chiavi dello scooter e, senza pensarci due volte, s’infila nel traffico di Parigi. Dopo meno di mezz’ora parcheggia davanti al portone verde smeraldo in Boulevard Malesherbes, attraversa il cortile già in ombra facendo un cenno della mano alla custode, che ricambia alzando il mento, e senza esitare gira la maniglia della porta a vetri sul fondo.

Sarah è in piedi nel mezzo della stanza accanto a un cavalletto coperto da un lenzuolo. Tradendo l’emozione, gli va incontro allungando la mano, un saluto un po’ troppo formale, visto che si conoscono da anni. Scostato il telo, alla luce fredda di una lampada alogena appare il ritratto che X le aveva portato una settimana avanti. Era una trouvaille che poteva cambiargli la vita. Lo aveva comprato per pochi franchi a casa di un’anziana signora a Versailles, dopo un interminabile tè servito nella penombra in tazze di porcellana a fiori di Sèvres.

Si trattava di un soggetto lezioso: il piccolo Léon, figlioccio di Manet, ritratto dal patrigno mentre faceva le bolle di sapone. Ma ora la tela davanti a lui lo confondeva. Cos’era quella barba? E quel cappello? Prima non c’era o, meglio, non si vedeva, pensò corrugando la fronte, il battito del cuore accelerato. Pulendo la tela, sotto il ritratto del fanciullo, era apparsa infatti un’altra figura, quella d’un uomo barbuto con un cappellaccio.

Ecco, a me piace pensare che un giorno, nell’atelier di una restauratrice, sotto un batuffolo di cotone intriso di solvente appaia in trasparenza il pezzo di tela che Édouard Manet tagliò dalla sua «Fucilazione di Massimiliano d’Asburgo», i cui resti sono oggi alla National Gallery di Londra.

Manet dipinse quattro versioni autografe di quel tema nel biennio 1867-68, ma quella inglese, che è la seconda, fu l’unica a essere stata tagliata per ragioni avvolte nel mistero. Il dipinto illustra l’epilogo della guerra combattuta tra le truppe rivoluzionarie comandate da Benito Pablo Juárez e quelle fedeli a Massimiliano, arciduca d’Austria e imperatore del Messico.

Quella tela monumentale (i pezzi sopravvissuti misurano quasi tre metri di base per due di altezza) ebbe il valore di un dito puntato contro Napoleone III che, ritirando il proprio contingente, aveva abbandonato l’imperatore messicano al suo destino. Manet aveva anche un conto in sospeso col suo imperatore che, giudicando le sue tele troppo «moderne», aveva sbarrato loro la porta dei Salòn. Opere come «Le déjeuner sur l’herbe» o il ritratto di «Olympia», capolavori della pittura di fine Ottocento. Quindi, oltre al «j’accuse» politico, nel dipingere ripetutamente quel soggetto Manet aggiungeva anche una «revanche» personale.

E per rendere ancor più evidente da che parte stesse la colpa, vestì con le uniformi francesi il plotone d’esecuzione quando, nella realtà, era composto da una ciurma di meticci e indios, come si vede da un dagherrotipo dell’epoca.

Alla morte del pittore nel 1883 la tela fu ritrovata nel suo studio già priva della parte sinistra. Si pensa che a mutilarla sia stato lo stesso Manet. Alla sua morte il figlioccio Léon Leenhoff, che Manet realmente ritrasse fanciullo mentre faceva bolle di sapone, divise quel che restava della tela in quattro pezzi e li vendette separatamente (oggi sono tutti alla National Gallery di Londra).

Rispetto alle altre versioni, mancano soprattutto il generale Tomas Mejía, avvolto dal fumo delle carabine, e il suo imperatore, col sombrero in testa. Quello mancante è un bel pezzo di tela che Manet avrebbe potuto riutilizzare per dipingerci sopra un altro soggetto, come il ritratto del suo figlioccio, appunto.  Che, una volta riapparso, ricucirei coi resti a Londra; il primo numero di una mostra per ora solo sognata.

© Riproduzione riservata François Aubert, «Il plotone di esecuzione di Massimiliano d’Asburgo» (1867), New York, The Metropolitan Museum of Art, Accession Number: 2005.100.580.1, Gilman Collection, Museum Purchase, 2005
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