Mark Asch
Leggi i suoi articoliSe c’erano dubbi su come il bio-doc di Nan Goldin «All the Beauty and the Bloodshed» si sarebbe inserito nell’opera della regista Laura Poitras, giornalista investigativa e regista del documentario su Edward Snowden «Citizenfour», questi sono stati spazzati via dalla scena di apertura, in cui viene rappresentato un atto di disobbedienza civile segretamente pianificato: la protesta del 2018 durante la quale Goldin e altri membri di Pain (Prescription Addiction Intervention Now) hanno gettato bottiglie vuote di Oxycontin nel fossato che circonda il Tempio di Dendur nell’ala Sackler del Metropolitan Museum of Art.
Il film, che ha vinto il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia la scorsa settimana poco prima della sua anteprima nordamericana a Toronto, sarà al centro del New York Film Festival in ottobre. La pellicola traccia connessioni tra la sua vita, la sua arte, le sue dipendenze e il suo attivismo, in particolare l’attuale crociata per rimuovere il nome della famiglia Sackler dalle numerose istituzioni complici del lavaggio artistico del loro denaro sporco (i membri di questa famiglia sono proprietari della Purdue Pharma, l’azienda produttrice dell’Oxycontin e si sono arricchiti in modo inimmaginabile grazie alla crisi americana degli oppioidi che hanno favorito di nascosto). Il film, che è allo stesso tempo un’introduzione amichevole e una valutazione critica del lavoro di Goldin, si muove tra il personale e il politico per cantare una ballata della memoria, della famiglia, del potere e, naturalmente, della dipendenza, chimica e sessuale.
Dopo il flash-forward della sequenza dei crediti, il film inizia dall’inizio, con il clic familiare di un proiettore di diapositive a carosello e una progressione sfarfallante di istantanee, in particolare della sorella maggiore di Goldin, Barbara, morta suicida da adolescente. Queste prime foto raccontano l’archetipo di un’educazione repressa nella periferia degli anni Cinquanta, da cui sia Barbara che Nan hanno cercato di fuggire, solo una delle due con successo. Il suicidio di Barbara è stato il trauma principale della vita di Nan e ha ispirato gli slideshow «The Other Side» e «The Ballad of Sexual Dependency» (dedicati, ovviamente, alla memoria della sorella). Il film segue l’artista attraverso una giovinezza trascorsa alla ricerca della sua gente, nei bar gay di Boston e Provincetown, nel Massachusetts, e nella Manhattan della fine degli anni Settanta e dell’inizio degli anni Ottanta.
Poitras ha, ovviamente, una sorta di album fotografico da cui attingere che include, oltre alle fotografie di Goldin, anche le immagini dei film underground di artisti del calibro di Vivienne Dick e Bette Gordon (penso alla sequenza girata da Gordon di «Empty Suitcases» con il servizio fotografico in cui Dick e Goldin provano abiti e si può vedere Goldin scattare la sua famosa foto «Vivienne in the Green Dress» del 1980). Si tratta, nel complesso, di un ritratto di gruppo intimo e spesso celebrativo, e il film estrae dagli archivi molti volti noti, sia nelle foto famose che negli spezzoni: Suzanne Fletcher, David Armstrong, Cookie Mueller, Vittorio Scarpati, Jim Jarmusch e Sara Driver. Poitras rende doverosamente omaggio all’atmosfera di festa delle prime performance di Goldin con il proiettore, realizzando montaggi fotografici con i Velvet Underground e Screamin’ Jay Hawkins.
Il progetto di Goldin è trasparente in maniera radicale, a partire dai famosi a letto di lei e dell’allora fidanzato Brian Burchill, e dai successivi autoritratti scattati dopo essere stata da lui picchiata. Chi conosce il suo lavoro sa cosa sta per succedere; l’unico vero passo falso del film è l’inquietante ronzio di corde dai toni bassi che si diffonde nella colonna sonora quando Nan inizia a raccontare la storia dietro la sua foto del 1984 «Nan One Month After Being Battered«. Con Poitras dichiara per la prima volta pubblicamente il suo passato da «sex worker». Inoltre, parla del suo uso di oppioidi: l’eroina negli anni ‘80; fino a 18 pillole di Oxycontin al giorno durante la fase più profonda della sua dipendenza negli anni 2010; un incontro quasi fatale con il fentanyl; e, in un’udienza pubblica davanti alla Commissione per l’abuso di alcol e droghe dell’Assemblea dello Stato di New York, del suo continuo uso di buprenorfina.
«The Other Side» e «The Ballad» ritraggono persone che vivono una vita di enorme precarietà, economica e non. La perdita dei suoi amici a causa dell’uso di droghe e dell’AIDS ha pesato sempre di più sul suo lavoro, e il film lo racconta bene; la mostra da lei curata «Witnesses: Against Our Vanishing», che ha perso i finanziamenti del National Endowment for the Arts in seguito al clamore suscitato dal provocatorio saggio in catalogo di David Wojnarowicz, viene qui ripresa in modo significativo, ed è evidente che il gruppo di attivisti Act Up è stato di ispirazione per le manifestazioni di Pain al Guggenheim Museum e al Musée du Louvre.
È come se, nella famiglia Sackler, Goldin avesse trovato la personificazione dell’ordine sociale dominante che ha ucciso sua sorella e molti dei suoi amici e colleghi, e che ha dato alla sua arte la sua posta in gioco di vita o di morte. È anche come se attraverso l’attivismo avesse trovato una nuova famiglia: quando Goldin rilascia una dichiarazione da vittima durante le udienze per la bancarotta della Purdue Pharma, uno dei membri più giovani del Pain le tiene la mano tremante in un gesto che non sarebbe fuori luogo in una delle sue fotografie.
È in parte perché le immagini di Goldin, dopo tutto, sono nelle collezioni permanenti di molte delle istituzioni contro cui Pain ha protestato, che il gruppo ha avuto un tale successo nel fare pressione sui Sackler quando il governo ha fallito almeno nei suoi obiettivi volutamente limitati di rendere tossico il nome della famiglia nel mondo filantropico. Questo, insieme alla consapevolezza che i membri della famiglia Sackler hanno estratto 10 miliardi di dollari da Purdue Pharma mentre la crisi degli oppioidi si stava aggravando, usando la sua bancarotta per proteggere il loro patrimonio personale, rende il film implicitamente una domanda aperta su tutto il sistema di riciclo di reputazione attraverso l’arte.