David D'Arcy
Leggi i suoi articoliI contadini cambogiani che lavoravano vicino al complesso templare di Koh Ker sapevano che quando sul pavimento di un tempio vedevano dei piedi scolpiti voleva dire che dei saccheggiatori avevano segato la statua all’altezza delle caviglie per poi spedirla all’estero. Lo sapeva bene anche Emma C. Bunker, una ricercatrice con stretti legami con il mercato (nel 2013 Sotheby’s ha restituito al Paese d’origine una statua del X secolo priva dei piedi che era stata messa all’asta su suo consiglio).
Sollecitato dal Governo statunitense, il Denver Art Museum (DAM) lo scorso agosto ha restituito alla Cambogia quattro statue che, come si è dimostrato, erano state trafugate dal Paese. Mentre s’indaga su molte altre opere della collezione del museo, il ruolo di Bunker, donatrice e ricercatrice che ha contribuito a far arrivare quegli oggetti al DAM, getta nuova luce su una torbida operazione di contrabbando.
Le rivelazioni più recenti giungono dal «Denver Post». Il quotidiano del Colorado ha ricostruito i passaggi che hanno fatto sì che il DAM sia diventato quello che l’avvocato Bradley Gordon, un legale che rappresenta la Cambogia, ha definito una «lavanderia a gettoni» per le sculture saccheggiate dalla Cambogia e dalla vicina Thailandia. Il coinvolgimento di Bunker, perlopiù sconosciuto fino a poco tempo fa, ha comportato nuove indagini da parte delle forze dell'ordine e molto imbarazzo per il museo.
Il DAM, un’istituzione relativamente piccola e dalle modeste risorse, era l’improbabile snodo di una rete di mercanti che acquistavano illegalmente le sculture, spedivano le opere a Bangkok e altrove, e, per aumentarne il valore, ne organizzavano l’esposizione nei musei. Gli investigatori sono convinti che spesso Bunker abbia aiutato i mercanti a falsificare le provenienze delle opere.
Il legame del museo con la Cambogia è iniziato con Douglas Latchford, mercante inglese espatriato che nelle zone rurali assoldava cambogiani indigenti incaricandoli di staccare parti di sculture in situ da esportare e vendere. I saccheggiatori al suo servizio hanno riferito di aver ricevuto da lui pagamenti che hanno cambiato le loro vite. Latchford è morto nel 2020 mentre era indagato negli Stati Uniti per frode, contrabbando e altri reati (ne avevamo parlato anche nel Giorno per giorno nell’arte dell’1 luglio scorso).
Provenienze fasulle
Latchford aveva trovato un’amica in Emma Bunker, scomparsa novantenne nel 2021. Bunker ha scritto testi sull’arte cinese e dell’Asia Centrale, ha collaborato con Latchford a tre libri e visitato siti in Cambogia e Thailandia. Quando Latchford le ha messe in vendita, le opere dalle provenienze fasulle presentate in quei volumi hanno fruttato prezzi notevoli. Le provenienze di Latchford e Bunker sono state messe in dubbio anche da ex saccheggiatori che hanno ricordato di quand’erano bambini soldato dei Khmer Rossi e avevano razziato i siti, dichiarando di essere stati poi pagati da Latchford per gli oggetti sottratti.
Il giornalista del «Denver Post» Sam Tabachnik ha pubblicato stralci delle e-mail di Bunker, in cui alle carinerie nei confronti del «caro» Latchford si mescolavano espressioni di scherno nei confronti dei curatori e di altre persone che avevano attirato su di loro attenzioni e controlli indesiderati.
Già nel 1972 Bunker aveva pubblicato un articolo (probabilmente con l’aiuto di Latchford) che rintracciava nel tempio di Plai Bat II, nel Nord-Est della Thailandia, le sculture note come bronzi di Prakhon Chai. Nel Paese non è rimasta nemmeno una scultura di Prakhon Chai, in compenso gli scritti di Bunker hanno contribuito a farne lievitare il prezzo sul mercato delle antichità. Ora la Thailandia chiede che i musei le restituiscano.
Bunker era nota agli specialisti dei musei e ai mercanti, ma al di fuori di queste cerchie il suo nome è emerso di rado. Nel dettagliato verbale di confisca del Governo statunitense del novembre 2021, diramato quando il DAM ha accettato di restituire le quattro statue saccheggiate alla Cambogia, si cita una persona, indicata solo come «lo Studioso», come colui che aveva fornito a Latchford copertura e false provenienze per le sculture saccheggiate.
«Nel corso degli anni, si legge nel documento, lo Studioso ha assistito Latchford in varie occasioni verificando o garantendo la provenienza delle antichità Khmer che Latchford stava cercando di vendere». Lo «Studioso», come ha confermato ora il «Denver Post», era in realtà «la Studiosa» Bunker.
Il DAM ha cancellato da un fondo annuale di acquisizioni il nome di Bunker, che tuttavia rimane in una una galleria dov’era stato apposto in segno di riconoscenza per la donazione in denaro elargita dalla famiglia della studiosa. Il consiglio di amministrazione del museo, di cui ha Bunker ha fatto parte per cinque anni, sta però valutando se rimuoverlo. «Il DAM continua a ricercare tutti gli oggetti legati a Emma Bunker, chiarisce il portavoce Andy Tyler, in particolare 50 opere donate che potrebbero essere classificate come antichità asiatiche».
Eppure il museo non fornirà a Bradley Gordon l’accesso ai registri. «Più capiamo come Emma e Douglas hanno manipolato la documentazione storica e creato false provenienze, più sarà facile per noi completare il nostro lavoro, constata da Phnom Penh l’avvocato che rappresenta la Cambogia. Siamo in un Paese in cui ci sono migliaia di templi e piedistalli, gambe e braccia intorno a piedistalli in diversi luoghi del crimine».
Secondo le stime di Gordon 2mila sculture khmer si trovano attualmente in musei fuori dalla Cambogia e altrettante in collezioni private.
Leggi anche l’articolo del 2013: Uno scandalo pronto a scoppiare
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