Giuseppe M. Della Fina
Leggi i suoi articoliPlutarco narra che sarebbe stato proprio Licurgo, il mitico fondatore della polis, a introdurre il culto di Ghelos, come il dio era chiamato in Grecia (Vita di Licurgo, 25,4). Il dio era denominato Risus, invece, in lingua latina, da cui deriva la parola italiana «riso».
Scherzare era ritenuto opportuno nei banchetti, in altre occasioni sociali, nella vita politica e in momenti particolarmente tesi. Il re spartano Leonida sembra non avere dimenticato il suggerimento di Licurgo e, prima della battaglia delle Termopili, avrebbe detto ai suoi uomini con un «umorismo nero»: «Non dimenticate di pranzare…dato che stasera cenerete nell’Ade».
È ricordata l’ironia e l’amore per le battute del poeta Filosseno di Citera, attivo nella corte del tiranno Dionisio di Siracusa. Quest’ultimo, come accade talvolta agli uomini di potere, aveva iniziato a scrivere poemi convinto che avrebbero potuto assicurargli la fama insieme alle imprese compiute: quindi poeta, oltre che uomo di azione.
In un’occasione, lo racconta Diodoro Siculo nella Biblioteca storica (15, 6), lesse i suoi versi in pubblico chiedendo un giudizio a Filosseno. Il quale non rispose con parole di circostanza, ma affermò che erano pessimi. Il tiranno lo fece allora imprigionare nelle terribili carceri delle Latomie. Il giorno successivo ritornò sulla sua decisione e lo fece liberare. Lo invitò, anzi, di nuovo a banchetto come gesto di riconciliazione. Tornò, purtroppo, a leggere anche i suoi versi e a chiedere nuovamente il giudizio di Filosseno. Il quale dette una risposta fulminante: «Riportatemi alle Latomie».
L’ironia di Filosseno è ricordata anche in un altro episodio tramandato da Ateneo nei Sapienti a banchetto (I, 6 e-f) e ambientato sempre presso la stessa corte, ma con esiti meno duri. Durante una cena il poeta vide che a lui era stata portata una triglia piccola, mentre una molto più grande al tiranno. Allora prese la sua e l’avvicinò all’orecchio. Il movimento sorprese gli astanti e Dionisio ne chiese il motivo. Filosseno ebbe la prontezza di rispondere che stava scrivendo un poema su una ninfa marina e voleva chiedere informazioni al pesce. Ma la triglia aveva risposto di essere molto giovane e di avere poco da raccontare, assicurando che quella, portata a Dioniso, era più anziana e conosceva tutto di quello che gli interessava sapere. In tale occasione il tiranno scoppiò a ridere e fece portare la triglia più grande all’ospite.
Esempi di arguzia si trovano anche nel Philogelos, l’unica raccolta di barzellette giunta dal mondo antico. Eccone una: «Un uomo arguto, quando un barbiere chiacchierone gli chiese: “Come ti devo tagliare i capelli?”, rispose: “Stando zitto!”». E un’altra: «Un medico disonesto rubò una lucerna a un tipo arguto, malato agli occhi, che aveva curato. In seguito, gli domandò: “Come stai agli occhi?”. “Da quando mi hai curato, non vedo più la lucerna!”». Ancora una: «Un oste arguto, trovato un commissario della guardia a letto con sua moglie, disse: “Ho trovato quello… che non cercavo”».
Lo stesso amore per la battuta si può riscontrare tra personaggi celebri del mondo romano: Macrobio nei Saturnali (2, 3) ne riporta una di Cicerone: in occasione del consolato di Vatinio, durato solo pochi giorni, il celebre oratore osservò: «Nell’anno di Vatinio è accaduto un grande prodigio: sotto il suo consolato non ci sono stati né inverno, né primavera, né estate, né autunno». Nella stessa opera si racconta il sense of humour dell’imperatore Augusto, capace di stare allo scherzo.
Gli esempi proposti sono tratti dal libro I Greci e i Romani e … il riso di Tommaso Braccini (Carocci editore), appena pubblicato, che ripercorre con la giusta leggerezza la capacità di ridere degli antichi rendendoceli più vicini.
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