Vincenzo de Bellis
Leggi i suoi articoliLa prima puntata di questa serie si era conclusa con la promessa che nella seconda avrei parlato di come gli stravolgimenti post 25 maggio 2020 avessero modificato in modo evidente la programmazione dei musei americani. Il 25 maggio 2020 è solo uno degli ultimi e troppi episodi di razzismo di questo Paese. Un episodio gravissimo che tutti abbiamo visto in diretta planetaria e che è capitato proprio qui a Minneapolis, dove vivo. Da qui lo spunto per parlare di come questo e altri avvenimenti stiano influenzando in maniera determinante i musei e le loro attività.
Già prima dell’uccisione di George Floyd e le conseguenti proteste, i musei e la società americani erano stati investiti dalla necessità di un ripensamento, per usare un eufemismo. Per molti lettori, anche solo leggere che i musei debbano ripensare le loro programmazioni risulta quasi un’idea perversa e, fino a poco tempo fa, anch’io ero dello stesso avviso. Partivo però da un presupposto sbagliato.
So che non si può generalizzare ma so di avvicinarmi molto alla realtà: noi tutti, almeno molti in Italia e molto probabilmente anche in Europa a eccezione forse dell’Inghilterra e della Francia, diciamo di non vedere o, addirittura, che non ci sono diversità di razza, genere e inclinazioni sessuali, e pensiamo che questo sia la testimonianza del nostro non essere razzisti. Inoltre molto spesso, se qualcuno ci chiede che cosa pensiamo delle diversità, rispondiamo in questo modo: «per me bianco, nero, giallo, rosso, uomo, donna, gay, lesbica, transgender, non fa differenza alcuna».
Purtroppo non è così. La realtà è che credere di non essere razzisti non significa non esserlo, e non vedere le differenze non vuol dire agire nel giusto. Anzi. Non vedere significa minimizzare ed essere complici. Le differenze ci sono, e affermare di vederle è il primo passo per la comprensione del problema, non la soluzione. Se diamo per certo che tutto questo sia vero, e lo è, allora non possiamo esimerci dal dire che è anche vero che nel mondo dell’arte c’è stata una forma di razzismo altrettanto evidente. Qualche numero per farvi capire di che cosa stiamo parlando.
Il museo dove lavoro, il Walker, possiede 13mila opere in collezione realizzate da 2.350 artisti. Di questi, il 70% sono artisti uomini e bianchi, il 20% donne bianche e il 10% persone «Bipoc» (black, indigenous, and people of color). Oggi parlare di uomini e donne è decisamente riduttivo, ma il museo ha iniziato a collezionare quando la fluidità di genere non era ancora immaginabile. Per ora limitiamoci alle differenze di colore della pelle perché altrimenti avremmo bisogno di un giornale intero.
Se questi numeri non bastassero a sottolineare la grande discrepanza esistente, vi posso dare altri dati abbastanza impressionanti. Con il ritmo a cui collezioniamo (circa un centinaio di opere all’anno), se volessimo arrivare alla parità di genere tra uomini e donne bianchi dovremmo collezionare solo artiste donne per i prossimi 25-28 anni. E se volessimo pareggiare il numero di uomini e donne bianchi con uomini e donne Bipoc, dovremmo collezionare solo opere di artisti Bipoc per i prossimi 50-60 anni. Se questi sono i presupposti e la realtà che dobbiamo affrontare tutti i giorni, come si sta rispondendo a tutto ciò? In questa puntata mi concentrerò solo su un aspetto della vita del museo, ovvero le collezioni (la successiva sarà dedicata alla programmazione espositiva).
Nel 2018 il Baltimore Museum of Art ha deciso di vendere (il termine corretto sarebbe «deaccession» perché le opere cessano di essere parte della collezione del museo) sette opere di artisti come Andy Warhol, Robert Rauschenberg e Franz Kline con l’obiettivo di acquistare arte di donne e artisti Bipoc. Con i 7 milioni di dollari ricavati da quelle vendite il museo ha acquistato opere di Lynette Yiadom-Boakye, Jack Whitten, Wangechi Mutu, Amy Sherald, Njideka Akunyili Crosby, Wang Qingsong, Adam Pendleton, Chuck Ramirez e altri.
Si è trattata di una decisione controversa che però si è rivelata influente. Poco dopo, nel 2019, infatti, il San Francisco Museum of Modern Art (Sfmoma) ha venduto un dipinto di Mark Rothko per uno scopo simile ma con una grande differenza. Con i 50 milioni ricavati dalla vendita di un singolo quadro, non ha immediatamente acquistato opere, ma creato un fondo (endowment) dedicato all’acquisto di opere di soli artisti di colore. Vi chiederete qual è la differenza.
È una differenza di spirito e di sostanza. Vendere delle opere di grandi maestri quotate a caro prezzo per comprare opere di artisti Bipoc altrettanto care e richiestissime da tutti (basta guardare i prezzi di Yiadom-Boakye, Whitten, Mutu, Sherald, Akunyili Crosby) significa non spostare l’indice dello sbilanciamento esistente. In sostanza, sia pure apprezzabile per alcuni a livello di diversificazione delle collezioni, è una pura operazione di comunicazione e di marketing oltre che di mercato, visto che si acquistano opere da grandi gallerie molto ricche e potenti.
Al contrario, l’idea di creare un fondo ristretto solo all’acquisto di opere di artisti Bipoc, significa investire a lunga scadenza, senza un immediato ritorno di immagine, ma con una definita volontà di spostare nel tempo l’indice che segna le differenze sopra citate. Con una formula molto comune ai musei americani infatti, i 50 milioni ricavati vengono investiti in borsa con investimenti sicuri che negli ultimi trent’anni hanno fruttato in media un 5% annuo. Oggi saremmo al 7%, ma in passato ci sono stati momenti in cui si era poco sopra il 3%. Quindi senza toccare mai quel capitale, d’ora in poi lo Sfmoma solo con questo fondo avrà a disposizione 2,5 milioni all’anno per acquisire opere di artisti Bipoc e nel tempo questo potrà realmente fare la differenza.
Ciò detto, entrambe le pratiche creano altri problemi che appaiono solo in superficie poco importanti, ma che in realtà lo sono eccome. Primo problema: chi credete abbia acquistato le opere di Warhol, Rauschenberg e Kline o di Rothko? Persone ricche e bianche, che, con le possibilità economiche di cui dispongono, possono spendere cifre importanti per opere con un pedigree di tutto rispetto perché provenienti da collezioni museali, andando così a incrementare le loro già grandi collezioni che successivamente metteranno all’asta, generando ulteriori ricchezze per i loro eredi, anch’essi ovviamente bianchi. Paradossale, ma nessuno sembra preoccuparsene.
Secondo problema etico (che molti artisti Bipoc hanno fatto notare): se i musei sono realmente motivati nel limare le differenze, perché farlo a spese di quegli artisti la cui chiara fama è la ragione stessa per cui gli artisti più giovani, inclusi quelli Bipoc, hanno deciso di intraprendere quella carriera con il sogno un giorno di potergli stare di fianco? Perché per comprare artisti non bianchi si devono trovare i soldi dalle vendite di opere straordinarie, quando per comprare quelle opere straordinarie si sono messi insieme fondi creati grazie alle economie dei sostenitori del museo? Non è che questi grandi sostenitori in questi casi non vogliono sborsare dalle proprie tasche? Questi sono alcuni esempi di altri musei. E il Walker?
Per fortuna il Walker ha un suo endowment per la collezione e quindi è completamente autosufficiente. E per giunta, ha una collezione stellare: fatta eccezione per alcuni artisti, non ha molti lavori di uno stesso artista e quindi fino ad oggi non ci si è neanche posto il problema di vendere («deaccession») alcuni lavori. In sostanza si fa con quello che si ha. E non è poco, rispetto a tanti altri. Per questo da due anni ormai i nostri acquisti sono quasi esclusivamente di artisti Bipoc. Bisogna però distinguere tra acquisto e acquisizione.
In un museo si parla di acquisizione quando un’opera entra in collezione, ma la stessa può avvenire tramite un acquisto, quindi una spesa del museo, un gift (donazione diretta) o un promised-gift (dono effettuato al più tardi alla morte del donatore). Pertanto, quando parlo di acquisto intendo solo quelle opere per cui il museo spende i fondi di cui è in possesso. Fin qui uno potrebbe dire: che bella iniziativa.
E di certo qualcosa di buono in tutto questo effettivamente c’è, non perché io pensi che l’arte dipenda dal colore della pelle o dalle inclinazioni sessuali visto che ero, sono e resterò un fermo sostenitore dell’esistenza di buona e cattiva arte, ma perché in questo momento gli artisti che provengono da comunità storicamente sottorappresentate generalmente realizzano lavori più forti, perché hanno qualcosa da dire, anzi, da sbatterci in faccia. Certo che non si può generalizzare ma ho notato che c’è un senso di urgenza più forte, c’è il desiderio di alzare la propria voce, di mostrare la propria personalità. Questo certamente non basta, ma a parità di capacità tecniche, di inventiva e di visionarietà, può fare la differenza.
E qui ci si ferma e iniziano i dubbi. Perché da questo a scegliere di comprare solo artisti Bipoc ci passa tanto. Ci passa la credibilità dell’«istituzione museo». Perché dobbiamo avere il coraggio di dire che quando siamo di fronte a opere di artisti Bipoc, molto spesso, tutti noi curatori oggi, non applichiamo gli stessi parametri che applichiamo in altri casi. Anche l’opera si lascia andare a una certa retorica, o a una tecnica non sopraffina o a un concept derivativo, sotto sotto lasciamo che questo passi. Ma perché? Ci sono tante ragioni, e ci vorrebbe davvero troppo per elencarle. Vi racconto però un aneddoto confessandovi di come sia stato uno dei giorni più stranianti della mia vita lavorativa degli ultimi cinque anni.
Nel giudicare un’opera di un artista locale e Bipoc che ci veniva donata, mi sono permesso di applicare le stesse regole interne che applico (anzi applichiamo) a tutte le opere: qualità intrinseca dell’opera; storia dell’artista; relazione dell’artista con la nostra istituzione e con la comunità circostante; relazione dell’opera con la storia e gli sviluppi della collezione; relazione dell’opera con il piano strategico del museo e dei suoi obiettivi; stato di conservazione; dimensioni (molto spesso le dimensioni troppo grandi di un’opera diventano un limite sia per la visibilità della stessa, sia per costi di magazzino).
Quando ho fatto presente che la mancanza di molti di questi dettagli mi spingevano a non ritenere l’opera di particolare interesse, mi sono sentito rispondere che in questo caso, e d’ora in poi in molti casi, avrei fatto meglio a mettere da parte questi parametri perché d’ora in poi chi realizza l’opera e il perché l’ha realizzata ormai è il valore fondamentale a cui non ci possiamo più sottrarre.
Non vi nascondo di aver pensato che i miei anni di studio e di lavoro, anni di convinzioni più o meno giuste, fossero finiti nel dimenticatoio in un colpo solo, soprattutto perché nella stessa riunione abbiamo discusso per mezz’ora se accettare la donazione di una scultura del 1986 di Franz West. E questa è stata per me la parte più complessa da sostenere, ovvero che si discutesse, non tanto se accettare o meno un’opera di un artista Bipoc con diverse regole da quelle a cui siamo abituati, ma che mettessimo in dubbio se accogliere, o meno, una grande opera di un grande artista, solo perché non rappresenta la narrativa del momento. Per fortuna non è successo e abbiamo correttamente accettato il gift.
Qualcuno potrebbe dire che è giusto che il museo come istituzione debba cambiare, modificarsi in base alle dinamiche della società, specie se parliamo di musei d’arte contemporanea, che nella loro stessa mission dovrebbero avere il ruolo di documentare e raccontare i cambiamenti della società attraverso l’arte e/o viceversa. E io potrei anche essere d’accordo, ma fino a quando non decideremo tutti insieme come sistema che il museo debba avere altre funzioni dobbiamo essere tutti consapevoli che gli stessi musei come categoria mondiale si muovono con le logiche con cui operano da secoli. Questo vuol dire non solo nel modo in cui collezionano, ma anche nel modo in cui operano in generale, nel modo in cui i direttori vengono scelti, nel modo in cui i board vengono creati e così via.
Pertanto, l’arte e gli artisti diventano solo lo sbocco più facile, più comunicativo per riempirsi la bocca con parole come diversità e inclusione, ma la realtà è che stiamo dipingendo una facciata senza averla prima intonacata. Nessuno di noi ha il coraggio di dire che in una società come quella americana dove non esiste Welfare e dove l’accesso a servizi di base come educazione e sanità si basa esclusivamente sulle possibilità economiche, come possono i musei, anch’essi principalmente privati, avere il compito di riequilibrare gli squilibri? E se anche fosse, siamo poi siamo sicuri che sia il nostro ruolo?
Se pensiamo che già in una società come quella italiana, dove la scuola e l’università sono pubbliche e aperte a tutti, la scelta di un percorso artistico si porta dietro tutti i cliché sul fatto che non sarà ripagata da un lavoro stabile e da uno stipendio decente, immaginate che cosa può succedere in una società in cui le scuole migliori, incluse pochissime scuole d’arte, sono le uniche che permettono di trovare sbocchi lavorativi a un certo livello (o nel caso dell’arte generare mostre e attenzione delle gallerie e dei musei) e le stesse costano centinaia di migliaia di dollari, come si può pensare che ci siano numeri sufficienti di persone provenienti da classi meno abbienti da poter generare un cambiamento?
Questo significa che bisogna rimanere inermi e non fare nulla? Certamente no. Bisogna intonacare la parete, per tornare all’immagine che ho usato in precedenza. Bisogna essere consapevoli e dire all’esterno che diventare artisti non è un’improvvisazione, ci vogliono scuole, studi, maestri, istituzioni educative di alto livello ma se non tutti possono accedervi, è difficile che tutti possano diventare artisti.
Pertanto bisogna spingere perché questa volontà di riequilibrio sia accompagnata da uno stravolgimento del sistema educativo e soprattutto bisogna essere molto realisti e dire che ci vorranno decenni, molti decenni perché si possa arrivare a un risultato apprezzabile. Se invece questo non succederà, allora presto ci accorgeremo che nel frattempo abbiamo distrutto una generazione di artisti «bianchi privilegiati» perché a questi, in questo momento, sono precluse tante possibilità, ma ci accorgeremo anche che non essendoci un numero abbastanza significativo di artisti Bipoc che potrà reggere il colpo alla lunga, quando poi finirà l’urgenza del momento, le gallerie abbandoneranno molti degli artisti che ora spingono, così come i musei non li esporranno più.
E cosa succederà? Avremo anche creato una generazione di «famosi per quindici minuti» che poi si trasformerà in una generazione di depressi, alcolizzati e drogati cronici. Questo è già successo tante volte in passato con altre bolle speculative, ma se dovesse capitare questa volta con gli artisti Bipoc, proprio per tutto quello che ho detto finora, non solo non potremo dire di essere stati diversi dalle generazioni che ci hanno preceduto, ma forse saremo stati anche molto peggio di loro.
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