Laura Lombardi
Leggi i suoi articoliDopo quasi tre anni è tornata il 5 ottobre nella Pinacoteca Nazionale di Siena (fino all’8 gennaio in una sala dedicata, per poi riprendere posto nella sala 7) la «Croce del Carmine» di Ambrogio Lorenzetti, della quale l’allora direttrice della Pinacoteca Nazionale, Cristina Gnoni, aveva segnalato, dopo la mostra sull’artista tenutasi tra il 2017 e il 2018, la necessità di un restauro, e proposto ai Friends of Florence di finanziare l’intervento, oggi realizzato grazie al dono di The Giorgi Family Foundation. L’intervento, progettato da Muriel Vervat e avviato quando la Pinacoteca Nazionale di Siena faceva parte della Direzione regionale musei della Toscana diretta da Stefano Casciu (cui spetta il coordinamento scientifico) ha visto avvicendarsi direttrici e curatrici prima di concludersi oggi nell’Istituto autonomo guidato da Axel Hémery.
Proveniente dal convento di San Niccolò al Carmine e depositata dal Comune di Siena presso il Regio Istituto di Belle Arti di Siena nel 1862, la croce dovrebbe esser stata realizzata intorno al 1328-30, opera giovanile di Ambrogio ancora legata alla pittura giottesca, ma già con caratteri propri della maturità del maestro per il gusto raffinato nell’elaborata decorazione a punzoni del tabellone e dell’aureola. Rispetto ad altre croci, connotate dai complessi lavori di carpenteria con terminazioni a poligoni stellati e modanatura delle cornici, la «Croce» di Ambrogio si distingue per l’affinamento del canone gotico, ma anche per l’interesse nell’osservazione della realtà, che si nota ad esempio nelle venature del legno, e ancor più nella resa anatomica del corpo di Cristo, dove le fasce muscolari sono rese con un chiaroscuro sfumato, alternando zone d’ombra ad altre in cui risalta la colorazione chiara della carnagione e il rosso brillante del sangue.
La sensibilità dell’artista si esprime inoltre nel cogliere il momento di drammatico abbandono, nel dolore, della vita terrena, con le labbra già cianotiche e le palpebre socchiuse. Il restauro, che segue quello eseguito tra il 1953 e il 1956 dall’Icr di Roma sotto la direzione di Cesare Brandi, in linea con le teorie conservative del tempo, ed ancor valido per molti aspetti da un punto di vista teorico, ha reso tuttavia la lettura dell’opera molto frammentaria. L’intervento è stato dunque occasione di importanti riflessioni metodologiche sulle scelte da compiere, specie sul fondo oro e sulle grandi lacune che interessavano il corpo del Cristo.
Il fondo dorato della croce ha rivelato lo studio sofisticato compiuto da Ambrogio Lorenzetti sulla diffusione della luce. Infatti, all’epoca in cui la Croce era esposta in chiesa, l’illuminazione era data solo dalla luce naturale e dalle fiamme delle candele. Fonti di luce che davano alla materia pittorica una luminosità viva e mutevole che metteva in rilievo l’anatomia specie nelle spalle e nelle ginocchia. Importante raggiungimento è stato dunque di recuperare al meglio quel fondo dorato, che Ambrogio realizzò come un tessuto riccamente decorato, quasi come fosse cuoio lavorato a bulino con figure geometriche probabilmente realizzate a compasso.
Un recupero svolto studiando i moduli simmetrici ai lati del Cristo e congiungendo così le linee perdute dei cerchi, senza applicare forzature e invenzioni che avrebbero condizionato la leggibilità dell’opera. La pulitura ha inoltre rivelato la tonalità rosea delle venature del legno dipinto della croce su cui è inchiodato il Cristo, che creano un forte contrasto con il tessuto geometrico del fondo. Nel suo complesso, l’intervento odierno ha saputo restituire il valore narrativo alla materia pittorica originale, ridando quindi voce all’intenzione poetica dell’arte di Ambrogio Lorenzetti.
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