Francesca Interlenghi
Leggi i suoi articoliRiconosciuta come una delle figure più influenti del mondo dell’arte a livello internazionale, Carolyn Christov-Bakargiev vanta un rapporto di lungo corso con il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea. Vi entra nel 2001 in qualità di capo curatore, ruolo che ricopre fino a quando viene chiamata alla direzione artistica della 16ma Biennale di Sydney «Revolutions - Forms That Turn» (2008). La prima esperienza come direttore ad interim nel 2009: «Sarei dovuta rientrare dall’Australia e prendere il posto di Ida Gianelli, con la quale avevo lavorato benissimo e che nel frattempo aveva deciso di andare in pensione. Ma la Biennale australiana fu un tale successo che fui candidata per la direzione artistica di dOCUMENTA (13)».
E quando le fu affidato l’incarico a Kassel come la prese Gianelli?
Ero la seconda donna nella storia a dirigere la manifestazione e lei, che era una donna fiera delle donne e conosceva molto bene il mondo dell’arte internazionale, capì immediatamente che quello era anche un segno dell’importanza del Castello di Rivoli e di tutto il lavoro che lì avevo svolto. D’accordo con il CdA, concordammo la soluzione di una direzione ad interim così da poter esercitare part-time entrambe le funzioni nell’anno 2009.
Di quella prima esperienza alla guida del Castello di Rivoli che cosa ricorda?
Che iniziai fin da subito l’attività di sviluppo della collezione. La prima acquisizione fu la grande opera «Mutterseelenallein» (1989) di Reinhard Mucha (Düsseldorf, 1950). Morto il collezionista che la possedeva, gli eredi non volevano rimanesse al Museo di Francoforte e c’era il rischio che andasse in mano a qualche privato. Trattandosi di un’opera creata per l’Italia, pensavo che in Italia dovesse rimanere e che fosse necessario tutelarla e salvaguardarla in un’istituzione museale. I miei sforzi in quell’anno furono tesi a lasciare la migliore situazione possibile a Rivoli, mentre mi accingevo a curare dOCUMENTA (13).
L’ipotesi di un secondo mandato inizia a profilarsi nel 2015 mentre lei sta curando la 14ma Biennale di Istanbul «Saltwater: A Theory of Thought Forms».
Ero nel pieno di un allestimento molto impegnativo perché avevo esteso la mostra a tutta la città lavorando a cavallo dell’acqua, tanto in Asia quanto in Europa, interessata a mettere in discussione il cliché Oriente-Occidente. Conservo un ricordo bellissimo di quell’esperienza: il blu del Bosforo, le tante persone care, Orhan Pamuk, Wael Shawky con il quale collaboravo da anni e del quale esponevo per l’occasione la terza opera filmica della trilogia «Cabaret Crusades: The Secrets of Karbala». Una telefonata mi informò di un bando pubblicato sul sito della Fondazione Torino Musei per la direzione congiunta di Gam e Castello di Rivoli. E così, trascorsi quella Biennale allestendo di giorno e studiando di notte la storia di entrambi i musei.
Vinto il bando e insediatasi ufficialmente nel gennaio 2016, a che cosa si dedicò?
Ancora all’ampliamento della collezione e, parallelamente, alla realizzazione di mostre e cataloghi collegati alle opere che entravano via via a far parte della raccolta. La prima acquisizione, formalizzata già nel 2015 quando vinsi il bando, fu proprio «Cabaret Crusades: The Secrets of Karbala» (2015) di Wael Shawky (Alessandria d’Egitto, 1971). Era per me il più importante artista del mondo arabo emergente e sono felice che finalmente abbia ottenuto il giusto riconoscimento rappresentando l’Egitto in questa 60ma edizione della Biennale di Venezia. Proposi poi «The Salt Traders» (2015) di Anna Boghiguian (Cairo, 1946) e «Hippo» (2015) tratto da «The Most Beautiful of All Mothers (II)» di Adrián Villar Rojas (Rosario, 1980). Fondamentale fu la sinergia con la Fondazione Crt, che acquisì entrambe le opere per il comodato al Castello di Rivoli, oltre i lavori di Arte Povera provenienti dalla collezione di Margherita Stein e quelli della Transavanguardia, inclusi nell’omonima mostra a mia cura (13 novembre 2002-23 marzo 2003). Nel 2016 ci fu anche la donazione dell’opera «Hisser» di Ed Atkins (Oxford, 1982) da parte di una figura cruciale e molto riservata del collezionismo torinese, Marco Rossi. Una sorta di buon augurio per il mio arrivo al museo.
Altro importante obiettivo era dar vita a Torino a un unico forte polo museale sul contemporaneo, fondendo insieme Castello di Rivoli e Gam.
Non so quante volte in quegli anni ho percorso la tangenziale che separava l’uno dall’altra e della quale oramai conoscevo ogni millimetro! Da un punto di vista culturale l’unione funzionava sempre meglio. Ricordo per esempio il grande progetto espositivo «L’emozione dei Colori nell’arte» (14 marzo-23 luglio 2017) diffuso nelle sedi di entrambe le istituzioni e a curatela congiunta. Mi piace menzionare il contributo di Damien Hirst, che per il catalogo della mostra disegnò la copertina. Un gesto di amicizia, non di poco conto. Ma credo sia proprio la mia peculiarità voler lavorare côte-à-côte con gli artisti (un approccio che ho messo in campo anche in occasione dell’esposizione «Arte Povera» in corso alla Bourse de Commerce di Parigi [fino al 25 gennaio 2025, Ndr], che ho allestito a stretto contatto con Pier Paolo Calzolari, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto e Gilberto Zorio).
Alla fine del 2017 lei propone al CdA e alla Regione Piemonte l’ipotesi di un’apertura al pubblico della collezione Cerruti, con ristrutturazione della Villa e studio delle opere da fare attraverso un accordo di collaborazione con il Castello di Rivoli.
Mi è parso un bellissimo sviluppo per il museo. Sono cresciuta con una mamma archeologa e con la convinzione che non esista una cosa chiamata arte contemporanea. Che cosa vuol dire arte contemporanea? L’arte dei viventi? Allora dovremmo progressivamente eliminare dalle collezioni le opere degli artisti non più viventi come Piero Manzoni, Lucio Fontana o diversi tra gli esponenti dell’Arte Povera? Sarebbe assurdo! Se l’arte contemporanea non è l’arte dei viventi, allora tutta l’arte è o è stata contemporanea. Certo ho sempre guardato alla Weltanschauung dell’oggi, ma sempre attraverso la lente archeologica. Oltretutto, nello stesso periodo, i miei colleghi direttori del Museo del Louvre e del Metropolitan erano molto attivi sul contemporaneo, quindi ho pensato fosse una buona idea fare il contrario. A quel punto ho dovuto necessariamente compiere una scelta, perché sarebbe stato impossibile, oltre che poco professionale da parte mia, pensare di potermi occupare di tutto. E così ho lasciato la direzione della Gam per concentrami sulla relazione tra il Castello di Rivoli e la Fondazione Cerruti.
In quale modo la collezione Cerruti ha orientato il prosieguo dell’attività espositiva a Rivoli?
Per me era importante mescolare arte storica e contemporanea, allestire le opere della collezione Cerruti in relazione a quelle del museo ed esporre per esempio Giorgio de Chirico non lontano dai lavori di Michelangelo Pistoletto. Il mio intento, incarnatosi nella programmazione di Rivoli, è sempre stato quello di dimostrare la continuità della visione dell’Arte Povera, dimostrando che essa non è un movimento fine a sé stesso conclusosi nel 1972, ma una corrente che ha continuato a produrre echi e riverberi anche nelle generazioni successive, fino ad oggi. E noto con piacere che con l’esposizione «Mutual Aid-Arte in collaborazione con la natura» (21 ottobre-23 marzo 2025) il mio successore Francesco Manacorda è in sintonia con questa convinzione.
Lei ha avuto anche il difficile compito di gestire il museo durante il periodo della pandemia. Che cosa ha significato?
Per me è sempre stata importantissima la cultura del corpo ed era prioritario poter fruire del museo non solo in maniera digitale. Quindi ho lavorato assiduamente, coinvolta in un think tank assieme ai direttori di altri musei torinesi, nell’ambito di uno studio commissionato al Politecnico di Torino, per creare un protocollo per le riaperture dei musei, adottato successivamente anche fuori dalla città. Ricordo di aver sottoposto al Ministero la questione della possibile incostituzionalità della mancata tutela dei beni culturali che la chiusura del museo, inaccessibile perfino a chi vi lavorava, imponeva. Tant’è che in uno dei decreti attuativi promulgati dall’allora presidente del Consiglio venne chiarito che il personale minimo, cioè i conservatori delle opere, il direttore e la sicurezza, poteva accedere ai musei. C’è stato poi il tema del personale rispetto al quale ho voluto evitare qualsiasi perdita, nonostante un considerevole e immediato calo dei contributi da parte della Regione Piemonte nell’anno 2020. E l’intuizione, in accordo con la Asl 3 di Torino e il Comune, di trasformare il Castello di Rivoli in un hub vaccinale, creando con l’artista Claudia Comte un percorso acustico e visivo che trasformava un’esperienza di per sé paurosa in qualcosa di bello, perfino di ambito.
Iniziando questa conversazione, lei mi ha detto che oggi c’è una grande confusione su che cosa sia un museo. Vuole spiegarcelo?
Un museo è caratterizzato principalmente dall’avere una collezione e secondariamente dall’organizzare attività espositive. È in primis un ente che raccoglie le cose del presente che costituiranno il nostro passato nel futuro, per i posteri. Sicché per un museo la collezione, e la parallela ricerca storico artistica sul presente, è molto importante. I numeri dei visitatori sono comunque un fattore rilevante e posso dire che sono cresciuti sistematicamente fino al Covid, nonostante Rivoli non sia così agevole da raggiungere e il prolungamento della metropolitana sarebbe necessario. Eppure, anche questa difficoltà l’ho voluta trasformare in una risorsa immaginandomi uno slow museum, un luogo in cui, diversificando mostre e attività, sia possibile trascorrere l’intera giornata. In ogni caso, non è che la tutela dei beni culturali sia legata di per sé all’affluenza del pubblico. Un museo serve la sua comunità locale e promuove il turismo, il pubblico può gioire di un museo, può andarci per informarsi ed imparare. Ma per come la vedo io, che sono figlia di un’archeologa e mi proietto in avanti di mille anni, penso che a chi verrà dopo di noi non interesserà tanto sapere quante persone entravano nel museo, ma piuttosto cosa le opere della collezione raccontano dell’inizio del XXI secolo.
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