Matteo Mottin
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In vista dei 40 anni del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, che verranno celebrati il prossimo 19 dicembre, proseguiamo con le interviste ai direttori. Dopo Rudi Fuchs, diamo la parola a Ida Gianelli, al timone dal 1990 al 2008.
Lei diventa direttrice artistica e segretaria generale del Castello di Rivoli nel 1990 dopo essere stata assistant curator di Pontus Hulten a Palazzo Grassi. Come ha trovato il museo all'inizio del suo mandato?
Il museo era stato inaugurato da poco grazie alla visione lungimirante di Giovanni Ferrero, assessore alla cultura della Regione Piemonte, e di Alberto Vanelli, direttore dell’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte, che decisero di fare del Castello di Rivoli un museo d’arte contemporanea. Furono loro a scegliere Rudi Fuchs come direttore per la sua grande esperienza nei più attivi musei internazionali. Fuchs invitò i più importanti artisti a realizzare un’opera per l’inaugurazione del museo proponendo così una collezione ideale. Il desiderio era quello di acquistare tutte le opere. Purtroppo la realtà economica era ancora lontana dall’essere soddisfacente, quindi non era stato possibile. Tornando alla sua domanda, trovai un luogo bellissimo con opere altrettanto belle in dialogo con lo spazio, ma avulso dal contesto italiano e soprattutto dal contesto torinese. Quando ero a Palazzo Grassi mi ero resa conto che molti dei torinesi che venivano a Venezia per le sue mostre, non erano mai stati a Rivoli. Il problema era riuscire a radicare il museo nel territorio. Era già stato fatto un lavoro importante di internazionalizzazione, perché un museo che rimanesse solo italiano non era interessante, ma Rudi Fuchs su questo aveva già lavorato bene, e gli artisti anche. In sintesi, ho trovato un museo bellissimo, amato dagli artisti, conosciuto all’estero, ricco di potenzialità, ma privo di rapporti con il pubblico e con pochissimi mezzi economici.
Nella mission del Museo c’è stata fin da subito l’idea di valorizzare gli artisti legati all’Arte Povera?
Non c’è stata l’idea di valorizzare esclusivamente gli artisti dell’Arte Povera, ma l’idea di valorizzare gli artisti italiani. Evidentemente, se gli artisti dell’Arte Povera sono tutti fra i migliori artisti internazionali, questo non dipende da una preferenza rispetto ad altri. C’era il desiderio di valorizzare chi aveva una visione internazionale, e comunque gli artisti dell’Arte Povera rappresentavano l’ultimo movimento italiano in gran parte torinese.
Tra i progetti realizzati durante la sua direzione ce n’è uno a cui si sente particolarmente legata?
Sinceramente no. Tutti i progetti realizzati, per diversi che fossero, mi hanno arricchito e coinvolto completamente. Ho sempre amato, più di ogni altra cosa, lavorare direttamente con gli artisti. Vedere le mostre prendere vita, dai nostri incontri e dai nostri dialoghi, nelle sale del Castello, è stata una delle più belle esperienze della mia vita. Riflettendo posso affermare che gli artisti sono le persone che più hanno contato per me perché mi hanno sostenuto e aiutato nel mio percorso che non è sempre stato facile. Con alcuni di loro il rapporto non è mai terminato. Le cose che ho fatto, le ho vissute e amate. È stato tanto lavoro, ma non difficile, perché il mondo dell’arte allora non lo era. Ho avuto anche la fortuna di lavorare con due persone straordinarie come Ferrero e Vanelli. Il consiglio di amministrazione era formato da soli uomini, ma tutti uomini che non mi hanno mai imposto nulla o fatta sentire in difficoltà perché erano persone di potere e io no. C’era un sostegno straordinario di un tessuto sociale ben diverso da quello odierno, formato da persone colte e intelligenti, coscienti della necessità di svolgere un lavoro culturale e non di «sbigliettamento». La vendita dei biglietti non permette a nessun museo di autogestirsi, neanche al Louvre. Anche Palazzo Grassi, che all’epoca faceva 500mila visitatori, era comunque in passivo. Le mostre non servono a far cassa, hanno altri obiettivi.
Durante la sua direzione, c'è un progetto che, per qualche motivo, non è riuscita a realizzare?
Sì, forse più di uno. Come le ho detto ho stretto molti rapporti di amicizia con gli artisti, ma con alcuni c’è stato un rapporto più intenso perché avevamo iniziato insieme. Il più immediato e forte fu con Rebecca Horn. Era l’inizio degli anni Settanta, vidi le sue opere-performance e me ne innamorai. Andai a trovarla a New York e diventammo subito amiche perché avevamo la stessa età e le stesse idee rispetto alla politica e al femminismo. Nel 1976 organizzai una sua mostra personale a Genova e pubblicai un piccolo libro con un testo scritto da lei. Da allora, fino al mio arrivo al Castello di Rivoli, non mancai mai una sua mostra ovunque fosse. Come non mi stancherò mai di dire, il mondo dell’arte era molto diverso. I collezionisti, pochi, amavano l’arte, non l’investimento, e viaggiavano per vedere le mostre e capire le opere che acquistavano. Quindi si era formato una sorta di fan club che la seguiva nel suo percorso. Circa due anni dopo il mio arrivo al Castello, Rebecca fu invitata a organizzare una grande mostra con opere particolarmente importanti. Ovviamente pensai subito di portarla a Rivoli, unendomi al tour che stava preparando, purtroppo non fu possibile. Le opere di Rebecca, una sorta di macchine celibi, erano molto complicate da trasportare e da allestire, richiedendo tecnici specializzati. Insomma, i costi erano proibitivi per il museo e fu impossibile far parte del tour.
Il suo primo progetto al Castello è stato «Arte & Arte», nel 1991. Una mostra articolata su diversi capitoli, dedicata alla relazione tra l’arte contemporanea e diversi linguaggi della cultura.
Ho iniziato con questo progetto perché volevo far capire che sono tante le espressioni artistiche di cui il museo avrebbe voluto occuparsi, e non esclusivamente pittura e scultura. Gli artisti che hanno partecipato li conoscevo bene e li stimavo profondamente, e questo ha sempre fatto parte delle mie scelte, è stato sempre tutto molto legato al rapporto personale.
In quella mostra ci sono stati degli episodi eccezionali, come il concerto di Philip Glass nella sala di Sol LeWitt.
Philip Glass lo scoprii quasi casualmente a New York all’inizio degli anni ’70. A quell’epoca tutto era facile. Ero andata a New Work per conoscere Rebecca, e mi era stato detto dal giro dell’arte che c’era un concerto in uno studio di un musicista, molto conosciuto in città, ma che io non avevo mai sentito nominare:era Philip Glass. Ripeto, le cose erano molto diverse, ho semplicemente aperto la porta del suo studio e l’ho conosciuto, oggi non credo sarebbe possibile. Frequentavo Sol LeWitt, che avevo conosciuto in occasione della sua mostra alla galleria Sperone a Torino, e Sol, che amava tutta la musica, era molto amico di Philip Glass, e aveva anche disegnato alcune copertine per i suoi dischi. Mentre lavoravo ad «Arte & Arte» ho pensato che sarebbe stato fantastico riuscire a portarlo a Rivoli per un concerto. Suonò gratuitamente nella sala con la volta di mattoni dove Sol era intervenuto su tutte le pareti. Inoltre nella cappella del Castello espose le sue partiture, che erano veramente bellissimI disegni.
Lei dice che a quell’epoca tutto era facile. Come mai? Era dovuto alla personalità degli artisti o a un’attenzione diversa verso l’arte?
C’erano pochissimi collezionisti, e quei pochi amavano davvero le cose che compravano. Nessuno pensava a fare investimenti, nessuno comprava per status symbol, nessuno imponeva i propri artisti come accade adesso. Gli artisti erano conosciuti e amati da poche persone, e quelle poche persone credevano veramente in loro. Il mercato non era ancora entrato a gamba tesa nel mondo dell’arte, le gallerie non erano ancora diventate attività di spostamento di capitali, non imponevano ai musei i propri artisti. C’era rispetto per le attività delle istituzioni. Si lavorava in tutt’altro modo, si dialogava con gli artisti e non con i mercanti, e per gli artisti era importante mostrare le loro opere nei musei, non in una determinata galleria.
Nel 1992 arriva al Castello «Post Human», curata da Jeffrey Deitch.
Conoscevo da tanto tempo Jeffrey Deitch, che aveva lavorato con Leo Castelli, a New York. Questa mostra, se devo dire la verità, non corrispondeva al mio modo di sentire, però avevo capito che era nello spirito del tempo, e poiché il Castello di Rivoli è un museo di arte contemporanea, ho pensato fosse bene seguire la logica del tempo. Deitch aveva costruito il progetto, e voleva organizzare un tour in più musei americani e europei e, poiché ci conoscevamo da molto tempo e stimava il museo, me la propose e io dissi subito di sì, senza alcuna esitazione.
La mostra «SoggettoSoggetto», del 1994, è stata una collettiva di giovani artisti internazionali con nomi che sono poi diventati importanti figure a livello mondiale, come Philippe Parreno, Wolfgang Tillmans e Maurizio Cattelan. Quale intuizione ha seguito nella scelta dei partecipanti?
Io non ho nessun merito. ho dato carta bianca a Giorgio Verzotti e Francesca Pasini, che appaiono come curatori della mostra. Loro al tempo frequentavano gli artisti più giovani, io meno. Quello che ho fatto rispetto alla mostra sono state le scelte di acquisizione. L'artista che più mi colpì fu Maurizio Cattelan, trovai la sua opera fantastica e da quella mostra nacque un bellissimo rapporto che permise al museo di collezionare sue opere importanti. Ancora una volta, dato il budget limitato, senza la collaborazione di Cattelan sarebbe stato impossibile. L’altra mia scelta in quella mostra fu Tillmans.
Cattelan presentò il tappeto «Il Bel Paese». È un’opera tutt’ora molto forte. Come fu percepita nel 1994?
Lei può immaginarsi all’epoca che cosa significò. Fu un impatto fortissimo, tra sconcerto e rivelazione. È un’enorme critica sociale, fatta in una maniera semplice, quasi ovvia, e mi parve meritasse di essere valorizzata entrando in collezione.
Quale contributo duraturo ritiene di aver dato al museo?
Non credo che competa a me rispondere a questa domanda. Posso dirle che penso di aver costruito una bella collezione, e mi ripeto, grazie anche al contributo degli artisti che mi hanno sostenuta e aiutato a rendere gli acquisti possibili. La mostra «Arte Povera» alla Fondazione Pinault a Parigi, dove le opere del Museo sono ampiamente presenti, mi sembra che lo dimostri.
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