Alessandra Mammì
Leggi i suoi articoliCon tanto di nera toga, tocco e jabot bianco più un filo di inevitabile emozione e un consesso di accademici anche loro in alta uniforme, il 2 ottobre Alfredo Pirri ha ricevuto dall’Università Roma Tre una laurea magistrale ad honorem in «Architettura e progettazione architettonica». Non succede spesso di vedere il mondo accademico concedere tanto riconoscimento a un artista. Viene in mente solo Maurizio Cattelan promosso nel 2004 dottore in Sociologia all’ateneo di Trento che ricambiò con un suo lavoro: un asino impagliato dal titolo «Un asino fra i dottori» per l’atrio della facoltà.
Ben più formale e composta, invece, è stata la cerimonia di Pirri. A partire dalla motivazione dove si legge che la laurea viene conferita «per il grande rilievo nel panorama artistico ed architettonico della sua opera e per rappresentare i valori etici della creatività italiana». Concetto ripreso e approfondito nei vari interventi di architetti, filosofi e storici dell'arte, i quali nel corso dell’intera giornata hanno accompagnato una celebrazione che via via si trasformava in un simposio sul rapporto fra arte e architettura e sulla tensione che lega da sempre le due discipline.
Nelle parole degli architetti ecco Francesco Cellini che ricorda «di quando dovevamo progettare un campanile che si reggesse, suonasse le campane, fosse visibile da lontano, riconoscibile, economico, facilmente costruibile. Pirri, paziente e creativo, l’ha fatto proprio così, e in aggiunta anche originale, intrigante, raffinato e poetico». Mentre Paolo Desideri a proposito di un lavoro in comune per il museo della Magna Grecia a Reggio Calabria ammette di essere rimasto «stupito di avere accanto un artista interessato a lavorare con i “miei” materiali di architetto. Muri. Intonaci. Mattoni. Infissi. Aveva le competenze necessarie per costruire quel che ideava ed era provvisto anche di una speciale passione per la cantierizzazione quasi fosse il naturale e terminale passaggio della sua eccezionale manualità da artista». Concetto ribadito da Nicola Di Battista che gli riconosce «una capacità impressionante di gestire la sostanza dei materiali per realizzare le sue opere; materiali lontanissimi tra loro, dalle proprietà apparentemente inconciliabili: dal ferro alle piume, dalle plastiche alle terre, dall’intonaco agli specchi. Una capacità, a ben vedere, tipica dell’architetto».
Ora è ufficiale: Alfredo Pirri è artista-architetto, un ruolo quasi rinascimentale che arriva per di più con una motivazione solenne dove si invocano valori etici della «creatività italiana». Che cosa vuol dire esattamente?
Qualcosa che a che vedere con il «ben fatto». Il valore della tradizione del fare e del saper fare che diventa un principio etico. È l’aspetto del mestiere più concreto che creativo, che può benissimo abbracciare arte e architettura. Del resto la separazione disciplinare fra Accademia di Belle Arti e facoltà di Architettura appartiene alla storia recente. Solo nei primi del Novecento nascono due distinte istituzioni. Prima il rapporto era fusionale. Basti citare la teoria del «ben composto» barocco secondo la quale tutte le arti devono puntare a creare un’opera unica che al suo centro ha lo spazio.
È anche il centro di molti dei suoi lavori. Dai più recenti come «Prospettive con orizzonti», la potente installazione percorribile sul tetto del teatro del Maggio Fiorentino, fino ai più celebri come «Passi», quel pavimento di specchi che si frantumano sotto i nostri piedi e che ha occupato sedi diverse, dalla Galleria Nazionale di Roma al rifugio antiatomico di Konjic in Bosnia.
Sono lavori che puntano al ripristino di un diverso senso percettivo dello spazio. Vederlo come mai si è visto prima. In «Passi» ad esempio il protagonista dell’opera è il suolo, mentre normalmente se si entra in un edificio storico la pavimentazione ci appare sempre sottotono rispetto al resto, in qualche modo ha meno valore delle pareti o dei soffitti. Quindi trasformarlo in superficie specchiante e moltiplicatrice di spazio è un radicale spostamento del punto di vista e della percezione di un luogo.
Un altro tema ricorrente delle diverse «laudatio» è stato il suo speciale rapporto con la materia. Sembrava che gli architetti quasi invidiassero all’artista questa segreta e antica conoscenza.
Purtroppo gli architetti conoscono sempre meno la materia ed è vero che a volte mi chiedono consigli non solo sulle tante materie che ho utilizzato e messo alla prova, ma soprattutto per l’esperienza che arriva dall’averle messe in relazione, aver verificato come interagiscono visivamente e fisicamente.
Dunque l’architettura ha bisogno dell’arte.
Soprattutto ora, per quel che sta rischiando di diventare: una disciplina dove la dimensione tecnica prende il sopravvento sulle questioni estetiche ed etiche. Normative, burocrazie, tecnicismi appesantiscono il lavoro dell’architetto, in particolare se opera in campo pubblico. E non mi meraviglia che alcuni tra i più bravi di loro abbiano optato per il solo campo privato, proprio per evitare di rimanere imprigionati in queste griglie.
Che cos’è invece l’arte pubblica?
Questo è un interrogativo metafisico. Tutta l’arte per me è pubblica. L’arte non è mai privata, neanche il collezionista si può considerare un privato. Semmai un custode temporaneo, ma l’arte per esistere deve essere un linguaggio sotto gli occhi di tutti, giudicato da tutti.
Eppure c’è differenza fra un’opera che nasce per una funzione pubblica e una invece destinata a un appartamento privato.
È solo una questione funzionale, ma nell’essenza le cose non cambiano. Altrimenti entriamo in una dimensione puramente tecnica dell’arte. Godimento, percezione privata e osservazione pubblica devono restare in equilibrio. L’opera d’arte è uno strano oggetto, non lo possiamo catalogare.
Allora è profondamente diversa dall’architettura!
Certo che lo è. Le categorie sono separate. Non si può pensare a una sovrapposizione disciplinare, ma una tensione tra le due è costruttiva e positiva. E il piano di incontro è proprio su che cosa si intende per creazione che non deve essere pura e semplice visione soggettiva.
Che cosa l’ha colpita di più nel corso della cerimonia?
L’affetto. Una dimensione affettiva che superava le rivalità accademiche e non era rivolta a me come persona, ma esprimeva affetto verso un approccio, un metodo di lavoro, un dialogo.
Dialogo raro: è difficile che il mondo dell’arte e quello accademico si incontrino.
È difficile qualsiasi incontro fra l’ambiente dell’arte e il resto del mondo, tanto che l’arte rischia di diventare inesistente nel dibattito culturale. La difficoltà di confrontarci è ormai cronica, e se un tempo era possibile vedere Guttuso discutere con Andreotti su leggi culturali, oggi gli ultimi che hanno abbracciato temi più ampi sono stati gli artisti dell’arte Povera. Rinchiudersi in un sistema solo economico e finanziario indebolisce tutti: chi l’arte la fa; chi la compra; chi la osserva.
Questo suo riconoscimento non è un segnale opposto?
È un segnale importante, auspica una possibilità che viene poco considerata ma invece c’è ed è necessaria.
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