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Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliQuando l’ora si fa dura va di moda la pittura: lo sanno bene i galleristi d’arte contemporanea, che quando i tempi sono economicamente traballanti, quando c’è bisogno di qualche dose di ansiolitico e urgono certezze estetiche e psicologiche, non c’è niente di meglio che richiamare in campo la veterana delle arti. La pittura è l’Ibrahimovic del mercato dell’arte, quello che cambia volto alla partita perché è un punto di riferimento per i compagni di squadra e una mina vagante per le difese avversarie.
Volete farvi una scorpacciata di pittura? Andate alla Gam di Torino, dove sino a venerdì 12 febbraio è aperta una delle tre sezioni, la più numericamente «robusta», di «Stasi frenetica», la mostra diffusa che Artissima allestisce in tre musei cittadini (gli altri sono Palazzo Madama e il Mao, Museo d’arte orientale) per chi proprio non ce la fa a rinunciare a vedere e comprare opere dal vero dopo un anno di astinenza da fiere e mostre in presenza.
Il lockdown invernale del 2020 aveva bloccato sul nascere le tre rassegne fortemente volute da Ilaria Bonacossa, direttrice di Artissima, che ora, con un colpo di coda, approfitta dell’Italia in zona gialla e della liberatoria di Franceschini per proporre finalmente il suo progetto. Le opere sono tutte in vendita e i galleristi, che hanno pagato soltanto le spese di trasporto, sono contattabili tramite il QR Code dei cartellini delle opere.
Ma si diceva della pittura: è in larga maggioranza nel percorso alla Gam. È pittura «dipinta» nel senso tradizionale del termine (l’itinerario si apre con, tra gli altri, Giuseppe Mulas, classe ’95, con il suo stile flamboyant e ludico, lanciato dalla galleria Peola Simondi di Torino e con l’iperrealismo da smartphone di Andrea Fontanari della Boccanera Gallery di Verona), ma anche ricamata (come il piccolo d’après Albers di Francesco Vezzoli, galleria Franco Noero di Torino, acquistato per la stessa Gam dalla Fondazione Crt per l’arte) e soprattutto in forma tessile, secondo una moda già affiorata nelle più recenti Biennali di Venezia: su questo versante sono gli artisti africani, sull’onda di El Anatsui e di Ibrahim Mahama, i più gettonati: vedi lo sgargiante «arazzo» di Abdoulaye Konaté (Primo Marella Gallery) o il malinconico, lacerato drappo di Wallen Mapondera, presentato dalla Smac di Cape Town e acquistato da collezionisti italiani.
La malinconia, appunto: i tempi son quelli che sono e ispirano la presenza della dea saturnina in questa prima tappa, che riunisce un centinaio di opere della «Main Section» e «Dialogue/Monologue», due settori portanti della fiera. Perché, a proposito di pittura, è un colore anche il bitume che trasuda dai dipinti seicenteschi (e di molti divora i personaggi) e che ricopre i mobili da ufficio di un’installazione di Gabriel Kuri (ancora Noero), evocazione di una Pompei moderna sullo sfondo degli slogan della «Political Fear» dipinti da Juan José Martín Andrés, presentato dalla galleria Aural di Madrid, ancora in epoca trumpiana.
È un colore anche il nero della monumentale opera grafica di Monica Bonvicini (galleria Raffaella Cortese), esplorazione delle rovine lasciate dall’uragano in Alabama. In questa mostra, in cui si incontra un’artista, Pamela Diamante (galleria Gilda Lavia, Roma), che si è iscritta all’Accademia dopo avere fatto il soldato in Bosnia Erzegovina e nel Kosovo, e che ora riesplora il romanticismo con un polimaterismo da Wunderkammer; in cui la nuova archeologia è quella costituita dalla spazzatura spaziale (nella scultura di Sonia Leimer, presentata dalla galleria Nächt St. Stephan Rosemarie Schwarzwälder di Vienna), non mancano i richiami alla tradizione della Vanitas.
Questo a partire dalla prima sala al piano interrato della Gam, la più vasta, dove una delocazione di Caudio Parmiggiani (Poggiali, Firenze) dialoga con altre opere sul tempo, quella monumentale di Kosuth (Lia Rumma) ispirata a Beckett, che pone la domanda, neon bianco su fondo nero, «Is It Later Yet?», e quella scultorea, ibrida come una creatura da fantascienza distopica, della lanciatissima giovane Giulia Cenci (SpazioA, Pistoia).
E ancora: tre barometri, lì nei pressi, misurano sentimenti quali «Paranoia», «Discomfort», «Belief» in un lavoro di Adrien Missika (Francisco Fino, Lisbona). Le palline d’acciaio che scorrono in percorsi sempre diversi nel labirinto musicale e meccanico di Eva Marisaldi (De Foscherari, Bologna) rimandano alla malinconica trottola azionata dal giovinetto di Chardin; altro creatore di giocattoli tristi, nonostante i colori sgargianti, è Keita Mijazaki (Rosenfeld Gallery) che assembla origami e pezzi d’automobile. In un angolo trovano spazio opere realizzate durante il lockdown: i versi dei poeti rivoluzionari russi echeggiano, ma velati di nebbia, nelle superfici ricamate di Arseny Zhiklyaev; Isabelle D. ha creato all’uncinetto un bianco, allucinato fondale marino (metafisica rivisitazione di quelli, di analoga realizzazione tecnica, delle sorelle Wertheim alla Biennale di Venezia del 2019), mentre Radu Oreian si è dedicato a un intricato vortice di figure apocalittiche (entrambi sono presentati dalla galleria Nosco di Marsiglia).
Scrisse André Chastel che l’arte a Roma alla vigilia del trauma del Sacco del 1527 produceva preziosità simili a fiori nati in serra. Anche ora che le ricorrenti catastrofi ci riportano a tempi inquieti e precari come quelli, gli artisti partoriscono fiori rari e delicati: per tornare alla pittura, si vada al dipinto di Paolo Pretolani, «Sciarazad», incredibile tessitura e intreccio di juta, foglie di metalli vari e pigmenti a olio: lo offre la galleria Marina Bastianello di Mestre. Questo il presente; e il futuro? È proprio la pittura a dimostrare che, nonostante tutto, l’arte è dura a morire.
E allora, in omaggio al colore amato da Yves Klein e Rino Gaetano, ora che è in commercio lo YinMn Blue o Mas Blue, o meglio ancora Bluetiful, un nuovo tipo di blu (il primo da 150 anni) messo a punto da uno studente dell’Università dell’Oregon, tanto vale ricordare altre due opere pittoriche (total blue) da vedere alla Gam: quella «multistrato» di Simon Callery (Gallerie Annex14) e il «paesaggio» di Renato Leotta (Mandragoa, Lisbona), metà mare (per immersione del tessuto colorato e successiva cristallizzazione salina) e metà cielo.
A Palazzo Madama, invece, Ilaria Bonacossa con Valerio del Baglivo non ha perso l’occasione di esaltare la cornice offerta dalla stratificazione archeologica della Corte Medievale. L’atmosfera è da Wunderkammer e la trentina di opere provengono dalle sezione New Entries (gallerie emergenti con meno di cinque anni) delle ultime tre edizioni di Artissima. Il risultato è un «castello delle meraviglie» popolato da feticci (Joanna Rajkowka, galleria l’étrangère di Londra), totem (la scultura in gres smaltato d’oro a 14K di Frederick Naeblerod, Alice Folker Gallery, Copenaghen), e mostri (le «pelli» svuotate nella scultura di Francesco Albano, galleria Öktem Aykut, Istanbul, sinistramente intitolata «Salò»).
Ma è anche il luogo della parola, celebrata nell’ironico omaggio alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, opera in progress di Delain Le Bas (Yamamoto Keiko Rochaix, Londra) e del linguaggio, come testimonia l’opera di Andrea Galvani, che guarda alla molteplicità del linguaggio, all’incrocio tra scienza e magia, individuandola nella formula attraverso la quale l’artista rivisita l’equazione di Maxwell sull’interazione elettromagnetica.
Neanche qui è assente la malinconia; si veda la sfera da discoteca incatenata a terra, opera di Nelson Pernisco (White Noise Gallery). Il suo contrario è il video di Sasha Pirogova, «Biblimen», spassosa e surreale performance ambientata in una grande biblioteca: offerta dalla Triangle Gallery di Mosca, è tra le opere da non perdere, non fosse per il buon umore garantito, di questo «assaggio» di Artissima.
«Trova l’intruso» è il gioco che si svolge nell’ultima tappa, nel vicino Museo d’arte orientale. Se l’ouverture è affidata a un maestro della malinconia come Hiroshi Sugimoto, in due fotografie di grande formato proposte dalla multinazionale Continua, le restanti otto opere sono da individuare tra le collezioni del museo. Sono opere fortemente ispirate all’Oriente e all’orientalismo. Difficile, allora, individuare sullo scalone il vaso di porcellana, teso attraverso un’asta di bambù, di Ai Weiwei, altro artista di Continua. Le opere tessili di Haleh Redjaian (galeria Kajetan, Berlino) e la pittura optical di Xie Molin (Primo Marella Gallery, Milano e Lugano) sono presenze discrete fra le divinità delle varie civiltà che qui hanno casa.
E i rilievi d’acciaio a parete della pakistana Adeela Suleman (galleria Peola Simondi) si giovano molto, ai fini della riconoscibilità, della presenza del cartellino; Zehra Dogan è infine autrice, in «Kurdistan 2» (Prometeogallery, Milano e Lucca) di un sapiente mélange tra visionarietà surrealista occidentale e calligrafia islamica. È un’artista curda che ha conosciuto il carcere per motivi politici: i materiali naturali (tè, curcuma, sangue mestruale) che utilizza nelle sue opere assumono ora un particolare significato, un forte richiamo all’essenza fisica di un manufatto.
Nella sua visione ironicamente pessimistica della nostra civiltà l’artista bulgaro Stoyan Dechev (Anca Poterasu Gallery, Bucarest) compone una scultura in forma di QR Code, definendola la Stele di Rosetta che trasmetteremo ai posteri; e il ricorso al QR Code, inquadrato nello smartphone, nel percorso di queste mostre, come nel menu virtuale nei ristoranti dell’era Covid, mette in connessione il visitatore con la descrizione delle opere e le gallerie che le rappresentano.
Ma in realtà, nonostante la godibilità offerta dalla «Stasi frenetica» di Ilaria Bonacossa ci riconcili con i valori della visione e della riflessione (e con il gusto di una curatrice tramutatasi per l’occasione in «editor») siamo tutti qui ad aspettare le fiere «dal vero» e, nelle loro gabbie in cartongesso, i galleristi e i collezionisti, curiose e proteiforme creature dello zoo dell’arte contemporanea.

Artissima alla Gam di Torino

Artissima al Mao di Torino

Artissima a Palazzo Madama di Torino
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